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Valori di rigore

Secondo la maggior parte dei teologi e degli esegeti, la celebre frase di Gesù, «Non sappia la tua sinistra quel che fa la destra», non pare possa venire interpretata come un invito all’incoerenza.

Lo segnaliamo a beneficio dei vertici di una nota squadra di calcio, anzi, della squadra più titolata del nostro malandato Paese, dove il calcio si è affermato come il vero oppio capace di far dimenticare i problemi e i drammi della quotidianità, per lasciarsi cullare dalle gesta di campioni dal piede abile.
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Deliri arancioni

Alla fine il parroco arancione, «il reverendo di Obdam, Paul Vlaar, è stato sospeso perché “non ha rispettato la sacra natura eucaristica”»

I superiori hanno inflitto al prete una “pausa obbligata” dopo che, «alla vigilia della finale dei “Mondiali” fra gli Orange e la Spagna aveva celebrato una messa propiziatoria vestendo una stola del colore della nazionale e tenendo in mano un pallone da calcio».

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Le paure della Fifa

Riecco la Fifa inflessibile, severa, rigida ed equidistante. Ne sentivamo la necessità: in un mondo del calcio dove la furbata è all’ordine del giorno, dove i soldi portano a intrallazzi e malversazioni, dove i problemi dello sport si sommano a quelli della geopolitica, ecco che la Fifa riprende il suo ruolo di custode della pace e dell’ortodossia.

Sì, ne sentivamo il bisogno: faceva troppo male sapere che Blatter e soci avevano glissato con un sorriso sul caso Henry, su quel colpo di mano voluto e rivendicato, grazie al quale la Francia aveva segnato il gol decisivo per accedere alla fase finale della Coppa del mondo. L’Irlanda aveva rivendicato i suoi diritti, esponendo le sue ragioni e chiedendo giustizia: la ripetizione della partita o l’accesso ai Mondiali come 33.ma squadra.
Blatter, come sempre, aveva sfoderato il suo sorriso da politico promettendo di pensarci, e poi come sempre aveva detto che no, non si poteva fare: chi aveva avuto, aveva avuto; chi aveva dato, aveva dato. Così parlò la Fifa in quell’occasione, e la soluzione puzzava di opportunismo, o di interessi sporcati da principi diversi rispetto a quelli rivendicati – d’accordo, erano le Olimpiadi e non i Mondiali di calcio – da De Coubertain.

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Sorriso amaro

L’esperienza ci insegna che il sorriso è un sollievo per chi lo dona e per chi lo riceve.

Esiste, però, anche un sorriso sbagliato, fuori luogo. Come quello che la coppia Mogol-Battisti eternò in un celebre brano, e che descrive la fine di una relazione: “Un sorriso/ e ho visto la mia fine sul tuo viso/ il nostro amor dissolversi nel vento/ ricordo, sono morto in un momento”.

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Ma quanto mi costi

Trenta euro per frequentare il catechismo. Una parrocchia cattolica di Chivasso si è trovata di fronte a una scelta: chiedere un contributo alle famiglie o chiudere.

Si tratta di una parrocchia con annesso oratorio “che toglie i ragazzi dalla strada”; un’attività nobile che però non esenta la struttura religiosa da spese di gestione a più zeri (“solo il riscaldamento l’anno scorso è costato 11 mila euro”, spiega a La Stampa padre Bruno).
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Passione quanto basta

La Stampa ci spiega che si può impazzire, letteralmente, per Internet: l’uso della rete può trasformarsi da dipendenza a patologia.

Ci sono «11 manifestazioni di incipiente follia» elaborate dagli esperti: «Giorno dopo giorno si passa sempre più tempo online, in un crescendo innaturale. L’umore non è quello solito, ma gli attacchi di rabbia diventano standard. Addio affetti e amici: li si trascura per stare incollati al pc. Non c’è attività capace di emozionare che non sia una di quelle provenienti dal Web… Si mente spudoratamente sul numero dei clic con cui si guarda il video preferito. “Navigare” diventa la scusa per mettere in secondo piano i compiti scolastici o le responsabilità di lavoro. Il pensiero corre sempre alle tentazioni del cybermondo, anche quando ci si dovrebbe concentrare su altro. Cresce il macigno dei sensi di colpa, perfino la vergogna, quando si è online e non si riesce a smettere. Si dorme sempre meno, perché la notte si tramuta nel momento magico delle evasioni internettiane.».

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Cause perse

Povero Pato. Giovane calciatore del Milan, erede di quel Ricardo Kakà che se n’è andato (al Real Madrid) troppo presto, Alexandre Pato dà la scossa alla sua squadra in vista della partita-clou con i cugini dell’Inter.

E lo fa con un’intervista concessa alla Gazzetta dello Sport. «Che cosa darebbe per segnare all’Inter?», gli viene chiesto a un certo punto. Pato risponde secco: «La mia vita».

Perplessità del giornalista che replica: «Mamma mia, non le sembra un po’ troppo?» E Pato, di rimando: «No, perchè il calcio per me è la vita, è tutto».

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Parole a vuoto

Ieri il Corriere, oggi Repubblica: la stampa italiana celebra Twitter, il nuovo sistema di comunicazione che – secondo qualche esperto – rende antichi siti, blog e perfino Facebook.

Twitter, spiega il Corriere, è una “rete basata su micromessaggi” di 140 caratteri al massimo con i quali ognuno può raccontare «”in diretta” a gruppi di amici, genitori o a fan (nel caso dei messaggi inviati da star dello spettacolo o dello sport) cosa sta facendo, cosa sta comprando al super­mercato, a che ora andrà a prendere i figli a scuola».

Insomma, come il Corriere stesso ammette, una noia profonda, salvo che in occasioni eccezionali: come quando un utente di Twitter comunicò per primo bruciando perfino la CNN, l’ammaraggio sul fiume Hudson, o quando gli studenti iraniani comunicano gli sviluppi del loro dissenso, attraverso questo sistema, unica voce non imbavagliabile da parte del potere di Teheran.

Strumento utile, ma nei confronti del quale è necessaria la giusta cautela: si fa presto a parlare di citizen journalism, ma al volontariato giornalistico proposto dai cittadini deve corrispondere un’azione di verifica da parte del lettore, impegno che sulle testate tradizionali si sobbarcano (se lo facciano bene o male è un altro discorso) i giornalisti. Leggere un post su Twitter non è come leggere un giornale, e non solo per una questione di metodo.

In ogni caso il fenomeno andrebbe ridimensionato: non capita tutti i giorni di trovarsi testimoni casuali di un fatto storico e di avere i mezzi per raccontarlo. A fronte di queste eccezioni, come detto, il resto della comunicazione partecipata è solo noia.

Twitter per lo più è un ammasso di parole scritte senza convinzione per un pubblico quasi inesistente, e d’altronde solo una persona molto annoiata può passare la giornata a crogiolarsi negli insignificanti dettagli della vita altrui.

Il successo di Twitter dovrebbe preoccuparci: è l’ennesimo indizio della nostra tendenza sociale all’isolamento, a parlare senza ascoltare, a pontificare anziché imparare.

«Ho un’opinione su tutto, e se non ce l’ho me la faccio», mi ha scritto anni fa una baldante giovane che, pur in assenza di competenze specifiche, si candidava al ruolo di editorialista.

A parte rari casi di blog e canali che si distinguono per la loro specializzazione, la maggior parte dei fenomeni di interattività – dai siti ai social network – vengono sfruttati dagli utenti solo per tamburellare sulla tastiera anziché farlo a vuoto sul tavolo.

Latita la competenza, ma anche il buonsenso e la coerenza: un giorno si annunciano i propri spostamenti descrivendo percorsi e movimenti, il giorno dopo si protesta contro le telecamere in centro. Un giorno si inseriscono online le foto private, il giorno dopo ci si lamenta per l’assenza di privacy.

Si dimentica che la riservatezza impone di tacere quando non si ha niente da dire, e riflettere quando si intende parlare. Solo così il discorso ci guadagna, il confronto diventa proficuo, la parola ritrova il valore che aveva perso.

Messaggi chiari e risposte coerenti: «il di più viene dal maligno», concludeva tranchant Gesù Cristo. Uno che di comunicazione si intendeva.

Tempo a perdere

Il tempo libero è il vero mito del XXI secolo: quello che nei secoli scorsi era semplicemente il riposo tra due giornate lavorative, nel Novecento si è man mano riempito di attività e impegni che spaziano dallo sport alla cultura, dal volontariato al disimpegno.

Stanto all’ultimo rapporto OCSE pare che, in fatto di tempo libero, in Italia gli uomini siano avvantaggiati rispetto alle donne: i mariti, mediamente, riposano 83 minuti al giorno in più rispetto alle consorti, battendo perfino i sudamericani.

Si potrebbe discutere a lungo sui motivi e sulle cause di questa situazione, il retaggio di un paese di tradizione patriarcale che è anche, per giunta, la patria del mammismo.

Si potrebbe anche notare che il confronto con altre realtà (in primis i paesi nordici e la Nuova Zelanda, dove le donne riescono addirittura a riposare più degli uomini) è impietoso. E non si può ignorare che sia corretto, in una famiglia, puntare a un mutuo sostegno, a una responsabilità congiunta e condivisa nelle piccole questioni domestiche di tutti i giorni.

Però, al di là di una sperequazione che probabilmente reggerà a lungo, forse bisognerebbe cambiare prospettiva, interrogandosi non sulla quantità, ma sulla qualità.

Tutti abbiamo presenti i tristi esempi dell’uomo che passa il suo tempo libero al bar, come quello della donna che lo passa sul divano, sognando sulle immagini di una telenovela o appassionandosi per le vicende di un reality.

Spingere a favore del tempo libero senza “se” e senza “ma” non rende giustizia all’intelligenza di chi lo propugna.

Non è, naturalmente, questione di libertà (ognuno è libero di gestire il proprio tempo, le proprie energie, le proprie passioni come più gli aggrada), ma di etica. Specialmente per chi si pregia di definirsi cristiano.

Non avrebbe senso imporre regole, dettare tempi, e nemmeno dare consigli non richiesti. Non possiamo però non riflettere sul fatto che se il tempo libero diventa solo un momento di totale disimpegno, l’ennesima occasione per risvegliare gli istinti meno onorevoli o le abitudini più degradanti, rischiamo di farci male. E di fare male a chi ci sta vicino.