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Buoni maestri
Ricomincia la scuola. Tornano in aula otto milioni di ragazzi e 700 mila docenti, e si apre con i consueti problemi: strutture inadeguate, precari senza certezze, regole poco certe e una certa dose di disinformazione su cause e rimedi, proposte e riforme.
Eppure, nonostante gli acciacchi e i rattoppi, malgrado in troppi la vedano come un parcheggio per i figli o un diplomificio, una sorta di Facebook non virtuale o una palestra di bravate, la scuola resta un pilastro nella nostra società.
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Abbracci e responsabilità
«Baci e abbracci in culla contro il futuro stress: le coccole di mamma fanno adulti più forti. L’affetto materno è un’arma fondamentale per divenire adulti capaci di resistere alle tensioni quotidiane, più sicuri di sé, meno ansiosi e ostili», scrive La Repubblica.
Una paziente ricerca finlandese «ha selezionato 482 bebè e li ha seguiti nella crescita fino all’età di 34 anni. Gli psicologi hanno valutato il grado di affettività e di attaccamento materno quando il piccolo aveva solo otto mesi. Poi, a distanza di anni, con questionari ad hoc, hanno misurato il livello di sicuri e forti, capaci di vincere gli stress della vita. Tali soggetti mostrano livelli di ansia e ostilità fino a sette punti inferiori a quelli mostrati dai loro coetanei le cui mamme non hanno instaurato coi figli ancora in fasce un legame altrettanto affettuoso. L’affetto materno, dunque, è un’ottima risorsa per crescere pronti ad affrontare la vita».
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Cause perse
Povero Pato. Giovane calciatore del Milan, erede di quel Ricardo Kakà che se n’è andato (al Real Madrid) troppo presto, Alexandre Pato dà la scossa alla sua squadra in vista della partita-clou con i cugini dell’Inter.
E lo fa con un’intervista concessa alla Gazzetta dello Sport. «Che cosa darebbe per segnare all’Inter?», gli viene chiesto a un certo punto. Pato risponde secco: «La mia vita».
Perplessità del giornalista che replica: «Mamma mia, non le sembra un po’ troppo?» E Pato, di rimando: «No, perchè il calcio per me è la vita, è tutto».
Un poster per pensare
“Basta prediche, Gesù è sui manifesti”: il Corriere annuncia una campagna di evangelizzazione dal sapore pubblicitario proposta a Brescia da don Luca Paitoni, cappellano nella clinica Poliambulanza.
Scrive il Corriere che per «evangelizzare e avvicinare sempre più persone a Dio il prete ha messo da parte prediche e benedizioni casa per casa, studiando una campagna pubblicitaria ad hoc: protagonista Gesù con “slogan” ispirati a passi del vangelo».
Il tutto su cartelloni da 10×5 metri distribuiti un po’ ovunque, dal centro alla tangenziale.
Il costo di un impegno
«È finita l’epoca del tutto gratis», ha annunciato il magnate dei media Rupert Murdoch: lo ha stabilito dopo aver annunciato una perdita di tre miliardi di dollari, nell’ultimo anno, da parte del suo gruppo multimediale – che, tra gli altri, comprende Wall Street Journal, Times, Sun e la piattaforma satellitare Sky -.
La notizia era nell’aria già da tempo, e probabilmente già in molti avrebbero voluto sanare l’anomalia per la quale è normale comprare il giornale o pagare la tv satellitare, ma ogni contenuto presente su Internet deve essere sempre e comunque gratis.
Poi si vedrà
In Spagna li hanno etichettati come «Generacion “ni-ni”: ni estudia ni trabaja».
I primi dati del Rapporto giovani 2008 raccontano che la “generazione né né” esiste anche in Italia: scrive il Corriere che «tra i 15 e i 19 anni ci sono 270 mila ragazzi che non studiano e non lavorano (il 9%)… stessa tendenza nei dati relativi ai giovani tra i 25 e i 35 anni: un milione e 900 mila non studia e non lavora. Vale a dire: quasi uno su quattro ».
La vacanza ai tempi della crisi
«Record di italiani in vacanza (15 milioni) e per un periodo più lungo (mediamente 11 giorni, 2 in più rispetto all’anno scorso)»: così scrive Nino Materi sul Giornale.
Pare infatti che, dai primi dati, anche quest’anno la villeggiatura registri un +5%: una tendenza che prosegue dal 2006. Se sono veri i dati commentati dal Giornale, c’è davvero da chiedersi dove sia la crisi.
Naturalmente, a margine delle statistiche, non mancano coloro che anche quest’anno non andranno in vacanza per problemi economici, o le famiglie che limiteranno al minimo le giornate fuori casa, magari avvalendosi della benevolenza di parenti che vivono in zone di vacanza.
Proprio qualche giorno fa una lettrice segnalava che numerose famiglie avevano deciso di non inviare i figli al campo estivo organizzato dalla loro chiesa: per nove giorni erano stati chiesti 235 euro a bambino, ma si sono tutti lamentati che la cifra era troppo alta.
Quel bisogno d’amore
“Amori finiti: crescono i tentati suicidi tra i giovani”. Lo si evince da uno studio effettuato dagli psichiatri del San Carlo di Milano e riportato dal Corriere, dove si nota che “dietro a sei tentati suicidi su dieci, fra gli under 25 si nasconde un cuore spezzato“.
Si tratta di una generazione di duri che sono “abituati alla vita estrema, al bere, al fumare, ai ritmi della movida”, ma che “crollano, soffrono, perdono la capacità di elaborare il lutto, la fine di un amore”.
Basta un rifiuto per far crollare il loro equilibrio: dietro a questo terremoto emotivo “c’è un’identità ancora fragile, le delusioni pesano come insostenibili fardelli”. “L’incapacità di gestire le frustrazioni è il comune denominatore” dei ragazzi: sembra “una generazione priva di corazza“.
Forse la cosa che stupisce di più, nella notizia, non è la drammaticità dei numeri (che ovviamente non va sottovalutata), ma la comunanza tra tutti gli under 25: fino a qualche anno fa sarebbe stato azzardato accostare i sogni e le delusioni dei quindicenni con i progetti e il processo di maturazione dei ventenni.
Suona strano ancora oggi, a dire il vero. Un venticinquenne dovrebbe ormai aver messo la testa a posto in termini di studi, di lavoro, di famiglia, e invece ce lo ritroviamo catalogato alla pari di un quindicenne. Probabilmente non si tratta di un errore metodologico, ma di una constatazione che è necessario fare: la soglia dell’adolescenza si è spostata in avanti. Il ventenne, come il quindicenne, non sa ancora come muoversi e cosa vorrà fare nella vita, confonde ideali e speranze, è confuso sulle scelte lavorative da una società che lo obbliga a conciliare piacere e dovere anche in campo professionale.
Se i ventenni ragionano come i quindicenni non possiamo non preoccuparci. Vuol dire che manca quella fase di sviluppo che distingue l’adolescente dal giovane uomo. Incerto, incostante, incapace di dimostrare (e desiderare) una ragionevole stabilità di vita.
Una condizione agevolata da una deresponsabilizzazione che comincia in famiglia: genitori da un lato iperprotettivi che fanno crescere i figli senza responsabilità, dall’altro assenti quando servirebbe la loro consulenza. Asfissianti quando non serve, latitanti quando i ragazzi avrebbero bisogno di parlare, sfogarsi, chiedere. Niente di strano se poi si ritrovano a cercare altrove, tra gli amici o in rete, con tutti i rischi di trovare il consiglio sbagliato.
Segnalano gli esperti che «Ogni tentato suicidio è una comunicazione di disagio»: dovrebbe essere un campanello d’allarme.
Vero. Ma, c’è da chiedersi, è possibile che debbano arrivare alle drammatiche richieste d’aiuto prima che ci decidiamo ad ascoltarli? Possibile che non siamo in grado di comunicare una speranza per la vita? Il suicidio è l’ultimo atto quando si sa di non avere più nulla da perdere, e quindi presuppone un’assenza di interessi personali, valori, punti di riferimento.
In mezzo a una società senza riti e miti, i giovani si sono costruiti un universo a loro misura, limitato a ciò che possono vedere e toccare: un obiettivo scolastico, lavorativo, sentimentale. Fallito quello, tutto crolla. E la scelta – irresponsabile – di farla finita diventa sempre più invitante.
Invertire la tendenza non è impossibile, ma è impegnativo. Accogliere la richiesta di aiuto degli adolescenti, offrire loro una speranza, si può: ma, per farlo, dovremmo cambiare prospettiva, guardare i giovani con occhi diversi, parlare con il loro linguaggio. E, prima di tutto, ascoltarli.
Altrimenti quella comunicazione di disagio continuerà a cadere nel vuoto. E la colpa non sarà solo loro, come vorremmo credere.
Preferisco di no
Lug 21
Pubblicato da pj
È mancato venerdì sera Walter Cronkite, colonna del giornalismo televisivo statunitense. Nato nel 1912, era stato per sei decenni «l’uomo di cui gli americani avevano più fiducia, col suo approccio diretto, con le sue parole misurate, con la sua voce profonda che gli conferivano una autorevolezza senza precedenti nel mondo dei media».
Il culmine della sua carriera è stata la conduzione per quasi vent’anni (dal 1962 al 1981) del notiziario serale della CBS, ruolo che lo aveva consacrato anchorman di punta: fu lui ad annunciare la morte di Kennedy e lo sbarco sulla luna.
L’America si è commossa di fronte alla sua dipartita, e non solo perché era un grande comunicatore. «La grande forza di Walter Cronkite – ha ricordato il suo collega Brian Williams – era di essere la stessa persona davanti alla telecamera o fuori dallo studio. Una persona onesta e diretta che andava sempre al sodo, senza tanti fronzoli. Un modo di fare che piaceva agli americani».
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