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Un mondo senza vergogna

Chi ci salverà da un mondo senza vergogna? Ce lo chiediamo anche noi, insieme a Marco Belpoliti.

La vergogna è un sentimento ormai superato, di cui si ritiene di poter fare a meno e di cui – semmai – vergognarsi. E invece è sempre stata un ottimo filtro per i comportamenti individuali.

Il problema tocca tutti noi. La generazione di mezzo ha abolito la vergogna insieme ai limiti e alle inibizioni: per tentare di raggiungere un senso di libertà abbiamo sperimentato la trasgressione estrema; abbiamo trasformato le regole in suggerimenti e abbiamo abolito ogni punto di riferimento.

Abbiamo creato un’epoca “post” tutto, e abbiamo tirato su in questo contesto la nuova generazione. Una generazione che i limiti non li ha mai visti, le regole non le ha mai rispettate, e la vergogna non sa nemmeno cosa sia. Eravamo convinti di averle fatto un favore, sgombrando il campo da ogni confine; ci sentivamo come l’adolescente che riesce a conquistare mezz’ora al coprifuoco serale imposto dai genitori, spianando la strada al fratello minore.

Non è andata secondo i piani. Evidentemente quei limiti avevano un senso, quelle norme non erano così inutili. Quella vita, di cui coscienza e vergogna erano parte integrante, aveva un significato. Quelle difficoltà, quelle regole che ci andavano così strette ci motivavano a coltivare interessi, passioni, obiettivi, speranze.

Speranze che mancano a chi, oggi, vive un mondo dove tutto è relativo, dai valori alle azioni quotidiane.

Provate a esclamare “vergognati!” davanti a un adolescente. Vi guarderà perplessi. Vergognarsi di cosa? E perché?

E in fondo ha ragione: senza valori non esiste il giusto o lo sbagliato, il bene o il male. E, senza di questi, la vergogna non ha senso.

Ce lo siamo costruiti noi, questo mondo, a forza di irridere chi invocava un po’ di buona creanza. Che sarà mai, dicevamo, una pancia nuda o una risposta sopra le righe: i giovani devono essere lasciati liberi di esprimere se stessi. Senza vergogna, naturalmente.

E così, passo dopo passo, abbiamo demolito tutto: dalla buona creanza all’educazione, dall’educazione al rispetto, dal rispetto alla convivenza civile.

Non abbiamo costruito un bel mondo: né per noi, né per loro. Dovremmo correre ai ripari, se siamo ancora in tempo. E dovremmo vergognarci, se sappiamo ancora farlo.

Tra carte e comode rate

Repubblica dedica ampio spazio al reverendo John Jenkins della First Baptist Church di Glenarden, a due passi da Washington, protagonista di una crociata contro il consumismo: «John K. Jenkins, il pastore, lo ripete in continuazione: “Non dovete diventare schiavi dei debiti e dei creditori, lo dice la Bibbia” e parte con le citazioni di capitoli e versetti. Nella crisi economica americana, che si mostra soprattutto nelle difficoltà di pagare le rate dei mutui, delle carte di credito, delle auto o dell’assicurazione sanitaria, un ruolo di aiuto sempre maggiore lo sta giocando la religione. […]
Così in tutto il Paese, accanto ai tradizionali corsi di catechismo o prematrimoniali, sono nate le classi di Financial Freedom – libertà finanziaria – per insegnare a gestire l’economia familiare, a rientrare dai debiti e a vivere di quello che si ha».

Per Jenkins, scrive Mario Calabresi, «Il nuovo “satana” sono le carte di credito, che danno l’illusione di una ricchezza che in realtà non si possiede».

Il problema esiste anche da noi, per quanto in forma diversa. Certo, bisogna sostituire “carta di credito” con “rata mensile”, ma il risultato è lo stesso. Galeotto fu chi inventò il pagamento rateizzato, e incauto chi lo definì “comodo”: l’illusione di poter acquistare qualsiasi cosa si desideri, senza limiti, pur di non provare disagio per quella quota che, mensilmente, alleggerisce il nostro conto corrente. In certi casi fino a farlo diventare trasparente.

Un tempo esistevano corsi di economia domestica che insegnavano ad amministrare le finanze familiari; oggi evidentemente quella preparazione è venuta a mancare, se anche i meno sprovveduti non sanno districarsi tra tan e taeg, e finiscono per stipulare finanziamenti capestro quando potrebbero almeno, con un minimo di buonsenso, ottenere condizioni decisamente migliori.

Se il problema esiste, ed è esteso, è opportuno correre ai ripari, come ha fatto il reverendo Jenkins: magari, al grido di “a mali estremi, estremi rimedi”, triturando le carte di credito – si sa, negli USA sono piuttosto plateali – e soprattutto offrendo corsi per insegnare a gestirsi meglio. Che non significa tanto sapersi districare tra le condizioni dei circuiti creditizi, quanto imparare a spendere nel modo migliore.

Sembrerà strano, ma su questo versante la Bibbia è una insospettabile fonte di suggerimenti e indicazioni: non è un pretesto, e se ne sono accorti in molti anche in Italia, dove manager di successo che hanno sperimentato l’efficacia di queste indicazioni e hanno sviluppato corsi dedicati alla cura delle proprie finanze in maniera saggia.

Qualcuno obietterà chiedendosi se sia davvero un tema che riguarda la vita cristiana. Tutto sta nel capirsi: se per vita cristiana intendiamo ogni aspetto dell’esistenza, anche quelli più concreti, allora la risposta non potrà che essere affermativa.

La saggezza, l’equilibrio, il senso di responsabilità sono capisaldi nella vita di ogni cristiano: dal punto di vista più strettamente spirituale, ma non solo.

Esperienze da raccontare

È mancata, alla bella età di 108 anni, l’australiana Olive Riley: viveva a Sydney ed era la più anziana blogger della rete. A febbraio scorso aveva aperto il suo diario telematico, aiutata da un pronipote, «condividendo – spiega Reuters – con gli internauti le sue storie sulle due guerre mondiali e su come ha cresciuto tre figli da sola con il suo lavoro da cuoca in una stazione di provincia».

In questo modo la vecchina «si è guadagnata un pubblico di lettori internazionali», dalla Russia all’America, che si collegavano e interagivano con lei.

In questi cinque mesi la signora Riley è riuscita a inserire una settantina di interventi, risultato che batte in produttività i blog di molti giovani e giovanissimi, incapaci di esercitare costanza nell’aggiornamento del proprio spazio telematico.

La vicenda di Olive Riley fa riflettere. Si tratta ovviamente di un caso estremo: non è facile trovare un centenario lucido e capace di ricordare le vicende della sua vita, che si intrecciano con un intero secolo di storia. Eppure, se di Olive Riley ce n’è una, sarebbero molte le persone di una certa età disposte a raccontare. Sarebbe utile a loro, per mantenere la lucidità e sentirsi ancora vivi anziché spegnersi con la sensazione di essere un peso per la società. E sarebbe utile a noi, che potremmo leggere la storia da una prospettiva diversa, più immediata e vivida, sentendola dalla voce di un protagonista.

Sarebbe interessante poter contare su un archivio di piccole e grandi storie, vicende umane, scorci del passato. E non solo per documentare ciò che è stato, o per curiosità storica.

Le vicende umane si ripetono ciclicamente, i grandi temi con cui l’uomo si confronta sono sempre gli stessi: proprio per questo, in fondo, le storie di vita rappresentano un eterno presente, capace di dare spunti di riflessione, suggerimenti utili, speranza.

In famiglia, nel quartiere, nelle chiese sono sicuramente in molti ad avere un’esperienza da raccontare, e ad essere disposti a raccontarla. Quel che manca, semmai, sono le persone disposte ad ascoltare e a mettere questo patrimonio di vita a disposizione di tutti. Prima che sia troppo tardi.