Archivi Blog
Pregiudizi alla rovescia
Due ragazze sono state cacciate dalla Luteran High School della California per “essersi comportate in modo compatibile con il lesbismo”: ad avvisare i docenti era stato un altro studente, dopo che una delle due lo aveva invitato a visitare il suo spazio Myspace, dove – a quanto pare – la ragazza enfatizzava la sua tendenza sessuale.
In seguito all’espulsione le ragazze avevano fatto ricorso, ma la Corte d’appello della California ha dato loro torto.
Da parte della scuola pare evidente che non si sia trattato di un atto di discriminazione. Come ricorda un giudice della Corte, «il messaggio religioso della scuola è strettamente legato alle sue funzioni secolari, lo scopo di mandare un ragazzo o una ragazza a un istituto religioso è di far si che impari anche i temi mondani dentro un contesto religioso». E la Lutheran High School è parte di una confessione che considera «l’omosessualità un peccato».
Mandare i propri figli in una scuola confessionale comporta il desiderio che vengano formati secondo certi parametri; la scuola è basata su certi, specifici valori, che non si può pretendere non vengano applicati.
Giusto o sbagliato si voglia considerare un rapporto omosessuale – non è di questo che si discute ora -, sarebbe successa la stessa cosa qualora uno studente avesse trasgredito altre regole, raccontando pubblicamente ed promuovendo le sue esperienze di tossicodipendente o le sue avventure sessuali prematrimoniali (immaginiamo che la Luteran High School abbia tra i suoi valori anche la castità).
La chiave della vicenda sta nel fatto che le due ragazze non sono state “sorprese”, ma hanno raccontato, forse enfatizzato, un comportamento che andava contro i principi della scuola che frequentavano. Ben consapevoli, probabilmente, delle conseguenze.
Poi si può discutere finché si vuole se sia giusto o non avere un certo credo, una certa opinione, se sia ragionevole che la Bibbia consideri peccato un certo comportamento o una certa tendenza. Se ne può discutere ma non è questo il punto, anche se, a margine di ogni vicenda simile, viene scomodato lo spettro dell’omofobia.
Il problema nasce dalla reverse discrimination, la stessa condizione in base alla quale si sospetta che il figlio di un personaggio noto sia agevolato nella sua carriera, e si pretende che non debba avere successo a prescindere dalle sue qualità.
In ogni vicenda dove entrano in gioco le tendenze sessuali, si presume ci siano pregiudizi nei confronti dei diversi, e quindi si ha buon gioco a invocare la omofobia con polemiche che però, in molti casi, sono solo strumentali e mirano a imporre – appunto – una discriminazione inversa: il diverso deve avere per forza ragione, in ogni contesto e a ogni occasione, proprio in quanto diverso. Se questo non avviene, la controparte viene liquidata come omofoba, e la vicenda diventa l’ennesimo, gonfiato caso di discriminazione.
Non va dimenticato che la Luteran High School è una scuola privata – in una scuola pubblica il discorso sarebbe stato diverso -, e si tratta di una scuola chiaramente confessionale: come ricordava il giudice, se un genitore vi iscrive i figli è perché vuole che vengano loro inculcati certi principi cristiani, specifiche conoscenze dottrinali evangeliche, strumenti per guardare il mondo circostante da una certa prospettiva.
In questo contesto la scuola si è limitata a portare avanti i propri principi con un provvedimento forse drastico ma sostanzialmente corretto, richiedendo ai suoi studenti il rispetto di un codice di comportamento. Intervenendo ha sollevato (facili) polemiche; d’altro canto se non fosse intervenuta sarebbe venuta meno ai suoi obblighi e al suo mandato.
La coperta è corta, specie per chi mal pensa.
Tavoli solidi
Scrive il Corriere che «Per otto milioni di famiglie il pranzo della domenica è un rito intramontabile: lo sostiene uno studio dell’Accademia Italiana della Cucina… Sembra, infatti, che tutte le domeniche il 52% delle famiglie italiane si sieda a tavola per gustare un menu che è lo stesso di 50 anni fa».
Il tradizionale pranzo della domenica resta «un cerimoniale amato e diffuso. Che non solo resiste alle nuove tendenze alimentari ma rappresenta il più solido presidio della tradizione gastronomica italiana, il baluardo più autentico contro i fast food e il rito attraverso il quale recuperare l’antica tradizione del desco familiare».
Al di là dei dettagli gastronomici legati alla notizia, sorprende l’inversione di tendenza. Negli anni Ottanta il pasto comune era diventato un optional: ritmi di vita diversi e orari inconciliabili avevano reso arduo per marito, moglie e figli sedersi a tavola allo stesso momento; a dare il colpo di grazia al rito del pranzo familiare è stata la tv, entrata di sottecchi in cucina e diventata ben presto commensale ingombrante e logorroico, capace di azzerare la comunicazione tra familiari per farsi ascoltare da tutti in religioso (si fa per dire) silenzio.
I ritmi di vita non sono cambiati, ma quantomeno le famiglie italiane hanno riscoperto la domenica: un appuntamento settimanale per stare insieme attorno a una tavola imbandita, parlando e scherzando, discutendo e rinsaldando quei legami che la società moderna tende a sfilacciare.
Perché a prescindere dal menù e dalla qualità dei cibi serviti, il pranzo in comune è fin dai tempi biblici un’occasione di interazione, di convivialità (il termine non è casuale), di relazione. È una di quelle piccole buone abitudini che non sono codificate dalla dottrina né enfatizzate dai sociologi, ma che contribuiscono nel loro piccolo a tenere insieme una famiglia, o a segnalare un disagio prima che sia troppo tardi.
Il pranzo in comune non ha valore in quanto simbolo, ma come strumento; ha senso non come rito, ma in funzione di un modo di intendere la famiglia: un nucleo stabile, rassicurante, che offre ai suoi componenti affetto, serenità, certezze.
E, di questi tempi, Dio sa quanto ce ne sia bisogno.
Bibbia a colori
«La natura attraversa la Bibbia come una vite. Ci sono il giardino dell’Eden e il ramoscello d’olivo di Noè. Le querce presso cui Abramo si è incontrato con gli angeli e l’albero piantato presso i rivi d’acqua citato nei Salmi».
Adesso questa presenza verde ha avuto un suo riconoscimento con una nuova versione della Bibbia che verrà lanciata negli USA il prossimo 7 ottobre da Harper Collins. A caratterizzarla non è solo la carta riciclata e l’inchiostro ecologico (a base di soia), ma il testo stesso: «una versione della Scrittura – scrive Time – che richiama l’attenzione su più di mille versetti relativi alla natura e li sottolinea stampandoli in un piacevole colore verde foresta, come la “red letter edition” della Bibbia enfatizza le parole di Gesù».
Una versione che coglie la sensibilità sempre maggiore degli evangelici USA nei confronti della salvaguardia del creato, ma che probabilmente incontrerà qualche resistenza. E non perché usa la New Revised Standard Version, traduzione non amata dai conservatori: è il senso stesso del progetto a lasciare perplessi i battisti del sud, la corrente più conservatrice nel contesto evangelico. Rileva infatti Richard Land che l’ecologia «certo è importante, ma quando è stato chiesto a Gesù quale sia la cosa più importante, lui ha risposto “Ama il tuo Dio, e ama il tuo prossimo come te stesso”. Non ha detto nulla riguardo la creazione”».
Iniziativa interessante sotto vari punti di vista.
Intanto, ben venga una nuova versione della Bibbia che sia in grado di allargarne ulteriormente la diffusione e la lettura, purché la traduzione sia leggibile, fedele, accurata.
Tanto meglio se, come pare, la versione di cui parliamo potrà riuscire raggiungere un target appassionato ai temi sociali più che alla lettura delle Sacre Scritture.
In merito all’interesse dei cristiani per la salvaguardia del creato, va ricordato che non è una moda né un concetto nuovo. Apprezzare ciò che Dio ha creato, scoprire la perfezione di ciò che ci circonda, sorprenderci di fronte alle meraviglie della natura spinge il cristiano ad amare e a ringraziare con maggiore intensità il suo Salvatore.
Nello specifico, la salvaguardia del creato è un tema affascinante. E dei temi affascinanti non bisogna avere paura, anche se bisogna riconoscerne la pericolosità. Bene, quindi, l’attenzione alla tutela della natura, all’aiuto del prossimo, all’impegno sociale e magari anche all’azione politica.
Ma l’ecologia, come gli altri temi, non deve diventare una nuova ragione di vita, una nuova denominazione o un tema prevalente nella predicazione. Non va persa di vista la prospettiva: il centro della Bibbia è il rapporto di Dio con l’uomo, il suo scopo è raccontare che esiste per ogni essere umano la possibilità di ottenere la salvezza – quella salvezza che sfugge ai tentativi di raggiungerla con le nostre forze – attraverso l’azione di Gesù Cristo. Il resto è corollario.
Non comprendere la centralità di Cristo porta a considerare sullo stesso piano la “red letter edition”, che pone enfasi posta sulle parole di Cristo, con la nuova “green letter edition”, che sottolinea i temi ecologici contenuti nella Bibbia. E, magari, domani porterà a una nuova edizione che proclamerà con altri colori l’importanza di una dieta alimentare specifica, o dell’impegno sociale, politico, e chissà cos’altro ancora.
Insomma: mentre la Bibbia diventa multicolore, giorno dopo giorno rischiamo di leggerla guardando sempre più alle nostre mode, ai nostri interessi, alle nostre passioni, e smarrendo così il senso più profondo del messaggio di Cristo.
Pubblicità e progresso
Probabilmente non è un tema da Parlamento. Però, se è vero che i parlamentari sono i rappresentanti del popolo e dovrebbero quindi intercettare gli umori della società, ben hanno fatto le deputate Gabriella Carlucci e Manuela Di Centa, insieme alla ex onorevole Alessandra Mussolini, a muovere un appunto.
Il motivo del contendere è la pubblicità televisiva di una nota compagnia telefonica. Come spiega il Corriere, «Nello spot finito nel mirino, si vede una giovane in una sorta di raduno hippie: la protagonista, dopo aver fatto il test di gravidanza, comunica via sms la sua maternità a una serie di ragazzi e di uomini. Per tutti lo stesso messaggio: “Avremo un bambino”».
Secondo le tre esponenti politiche, tutte di centrodestra, «Nella pubblicità si evidenza chiaramente come non vi sia la certezza della paternità di un nascituro che viene ridotto, quindi, al prodotto del gioco di una notte, che peraltro rispolvera un concetto della sessualità tipico degli anni ’70 oramai superato. Mettere al mondo un figlio – concludono – è un atto di amore e di responsabilità che non può essere svilito e offeso per mere speculazioni commerciali».
In effetti lo spot lascia perplessi. Una volta per promuovere i messaggi gratuiti ci si affidava ai giovanissimi e alla loro insopprimibile esigenza di tenersi in contatto con fidanzatini e amici.
Evidentemente i pubblicitari hanno ritenuto che il target – e, con esso, le esigenze insopprimibili – siano cambiate, e la fascia di pubblico cui rivolgere l’offerta dovesse essere un po’ più matura: giovani e non più giovani, tutti comunque nella categoria dei Peter Pan che stentano a crescere e a riconoscere i tempi che cambiano.
Naturalmente non siamo così bacchettoni da non riconoscere che lo spot gioca sull’ironia e forse anche sull’iperbole, e che può essere perfino simpatico nella sua originalità. Allo stesso tempo però – come hanno rilevato Carlucci, Di Centa e Mussolini – lascia un po’ di amaro in bocca.
Troppe volte in passato abbiamo visto comunicare l’immagine di un uomo “che non deve chiedere mai”, di una donna che deve avere tutto “anche in quei giorni”, di un mondo dove deve girare “tutto intorno a te”.
L’elenco sarebbe lungo, e c’è da chiedersi se la pubblicità è testimone dei cambiamenti sociali o li agevola. Quel ruolo di pressione sociale che, un tempo, era degli amici del muretto o dei colleghi, oggi lo svolgono gli spot: il messaggio che passa non si limita a un “consiglio per gli acquisti”, come suggeriva anni fa Maurizio Costanzo, ma svolge un ruolo di convincimento molto più sottile: se non sei come ti vuole la pubblicità sei tagliato fuori. E si sa, di fronte agli stimoli appropriati l’amor proprio finisce per contare più del buonsenso, e l’impulso più dei valori.
La compagnia ieri, la pubblicità oggi rappresentano così quella normalità su cui finiamo, più o meno consapevolmente, per modellare i nostri parametri di vita.
È chiaro che la società cambia anche a prescindere dalla pubblicità, e la stessa pubblicità, per essere efficace, non può che modellarsi sulla società: non impone ma suggerisce, non ordina ma stimola, non spinge ma solletica. E, se la persuasione è più efficace della coercizione, la pubblicità, con il suo potere di condizionamento, è un’arma impropria che è necessario usare con cautela, buonsenso, senso etico.
Certo non sarà una pubblicità a cambiare la vita. Eppure in una società cui già basta poco per inventarsi bravate online, foto scollacciate vendute in cambio di una ricarica telefonica, esibizioni sessuali precoci per darsi un tono con i compagni,
gravidanze adolescenziali collettive, promiscuità di ogni genere provate per noia e senso di vuoto, non ci sentiamo sereni.
Per questo preferiremmo che la pubblicità, con il suo potere di persuasione, cercasse strade davvero nuove e creative per proporre un prodotto. In fondo, in mezzo alla spazzatura morale che ci assedia, puntare sulla pulizia potrebbe essere l’atto più trasgressivo di tutti.