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Se anche Bill dice basta
Se si è stufato lui, figurarsi noi. Bill Gates, fondatore dell’informatica di consumo, autore dei programmi e dei problemi dei nostri computer, annuncia la sua decisione di lasciare Facebook: il suo profilo sul social network più diffuso al mondo, infatti, era diventato ingestibile, con le diecimila richieste di amicizia che lo hanno raggiunto.
«Mi sono reso conto che si trattava di un’enorme perdita di tempo… Era diventato ingestibile, alla fine ho dovuto rinunciare» ha spiegato.
Quieto (con)vivere
“Convivere, nuovo fidanzamento italiano”: il titolo del focus che il Corriere venerdì dedicava a un’abitudine attecchita anche in Italia, dove i matrimoni in dieci anni si sono quasi dimezzati e le unioni di fatto hanno preso il loro posto.
Con un calcolo forse opinabile, ma probabilmente non troppo azzardato, Maria Antonietta Calabrò segnala che «ormai vive insieme al partner senza alcuna formalità una donna su tre tra quelle nate alla fine degli anni Settanta, e quando avranno diciotto anni le bambine nate negli anni Novanta, la percentuale potrebbe quasi raddoppiare».
Quattro i tipi di convivenza: la convivenza prematrimoniale, che sostituisce il vecchio fidanzamento e si conclude – se va bene – con il matrimonio; la convivenza necessaria/utilitaristica (di chi aspetta un divorzio o di chi non vuole perdere i vantaggi pensionistici di un precedente matrimonio); la convivenza come libera scelta per una vita di relazione dinamica (direbbero loro) o disordinata (direbbe la Bibbia).
In Italia, analizza il fondatore del Censis, Giuseppe De Rita, il 40% delle convivenze è di tipo prematrimoniale. Il dato non rassicura, né tutto sommato consola.
Anche perché la Pastorale familiare della Cei – organo ufficiale della chiesa cattolica – sorprende rivelando che «ci sono punte del 70 per cento di coppie che chiedono il matrimonio in Chiesa e che sono già conviventi».
Naturalmente ci sono sempre state coppie che desiderano sanare la propria posizione religiosa in fatto di matrimonio, ma di fronte a una percentuale così elevata non si può non chiedersi quali siano i valori e quale visione della vita la chiesa cattolica e le chiese cristiane in generale – riescano a trasmettere ai giovani.
Chiamiamola assenza di valori, chiamiamola paura del futuro, chiamiamola influenza malata di una società che si finge laica e si dimostra laida: il quadro è preoccupante.
In merito alla questione, una frase di De Rita è significativa e invita – forse inconsapevolmente – a una doppia lettura. Il fondatore del Censis segnala che i Dico si sono arenati perché «non c’è pressione sociale per una regolazione delle convivenze». Insomma, alla gente non interessa, e non preme sui politici per creare una nuova formula di tutela legale per le coppie di fatto.
La frase di De Rita, però, vale anche in una prospettiva etica: se la situazione è questa, è perché la società ha ormai accettato pacificamente la convivenza; è normale decidere di effettuare un test prematrimoniale, è normale finire sotto lo stesso tetto mentre si attende lo scioglimento legale di una unione precedente, è normale percepire emolumenti che, in caso di una nuova unione (di fatto o di diritto) non spetterebbero più.
Probabilmente nessun cristiano coerente intraprende consapevolmente una di queste opzioni.
Ma, allo stesso tempo, praticamente nessuno ormai si sogna di inarcare un sopracciglio obiettando agli amici che, cristianamente parlando, il matrimonio richiede senso di responsabilità nell’approccio, o che la frenesia di inaugurare una nuova relazione prima ancora di chiudere la precedente non risponde ai parametri etici di un cristiano, o che mantenere un diritto economico scaduto significa frodare lo Stato.
Certo, tutto questo è assolutamente “normale” per una società che non ha più punti di riferimento morali ed etici.
Ciò che preoccupa di più è che, ormai, tutto questo suona normale anche per noi.
Le premesse di una dipendenza
Per smettere di fumare, riporta La Stampa, non basta la disintossicazione. Bisognerebbe seguire «”lezioni” per imparare a gestire la rabbia: lo sostiene uno studio della University of California. I test condotti su 20 fumatori hanno scoperto che la nicotina aiutava a calmare l’aggressività e che nella maggior parte dei casi gli amanti delle “bionde” erano persone portate a reazioni rabbiose».
Il test effettuato sui fumatori in trattamento è molto semplice: un videogioco dove, alla fine, si può “punire” l’avversario con un potente segnale acustico. La sperimentazione ha rivelato che quando i fumatori erano in astinenza, tendevano a tramortire l’avversario con maggior vigore: «segno di alta propensione all’aggressività».
«Secondo i ricercatori, la nicotina influisce sulla parte del cervello che regola l’emotività. I fumatori che non riescono a smettere probabilmente hanno difficoltà a mantenersi calmi e per evitare reazioni troppo rabbiose finiscono per accendersi una sigaretta, che svolge l’effetto di un tranquillante».
Di conseguenza le terapie antifumo «dovrebbero contemplare anche un allenamento a gestire la rabbia nelle situazioni che mettono a dura prova i nervi e scatenano un forte desiderio di tabacco».
A volte la medicina ha la tendenza a considerarsi una scienza capace di risolvere, o almeno comprendere, ogni tipo di disagio fisico, psicologico, emotivo.
Fa piacere, quindi, se qualche ricerca scientifica aiuta a cambiare prospettiva, e rivela che considerare l’essere umano solo per la sua fisicità è un approccio limitato e insufficiente a offrire un quadro globale della persona, dei suoi problemi e delle possibili soluzioni.
Naturalmente è possibile curare sul piano medico la dipendenza da nicotina o da altre sostanze; il fatto che ci sia un “dopo” da affrontare, però, dimostra che il problema non si ferma alla sfera medica, ma si allarga al piano psicologico e spirituale.
Razionalmente parlando, d’altronde, la dipendenza non ha senso: nessuno dovrebbe cercare qualcosa che lo fa stare male e che, a fronte a un breve momento di piacere, lo rende schiavo.
Attaccarsi alla sigaretta per stemperare la rabbia comporta la presenza di un motivo di insoddisfazione o di irritazione: solo eliminando questa causa il bisogno di mantenere la dipendenza avrà qualche possibilità di venire superato.
Le premesse di una dipendenza nascono quindi nel vissuto di una persona, in quel complicato equilibrio di relazioni e situazioni che costituisce il retroterra umano, familiare, culturale di ognuno di noi.
L’approccio medico può curare una dipendenza, ma non basta a spiegarla; non c’è quindi da stupirsi se non riesce a debellarne le cause e, di conseguenza, a tenerne lontani.
Certezze illogiche
I greci la chiamavano “ubris”: era la tracotanza di chi si voleva elevare al livello della divinità (e per questo veniva punito).
La ubris torna in mente di fronte alle parole granitiche, senza la scalfitura del benché minimo dubbio, dello psicoterapeuta Fulvio Scaparro. Intervistato dal Corriere per commentare la vicenda di Stella, bambina nata in questi giorni dal seme paterno congelato 22 anni fa, Scaparro non lascia spazio a obiezioni: «La storia di Stella? Una notizia splendida. Un successo della scienza che non avrà conseguenze psicologiche negative sulla bambina».
Ne è sicuro, nonostante si tratti del primo caso di questo genere, perché «Stella è nata da due genitori che la desideravano. Ed è questo a contare».
La scienza è una materia in continua evoluzione: sviluppa conoscenze, testa risultati, sperimenta soluzioni. Supera ogni giorno i suoi limiti, e questa continua marcia all’avanguardia dell’umanità porta a esplorare campi ancora sconosciuti, a sondare reazioni incognite, in un incrocio continuo tra scienza, società, fede.
Per questo lascia perplessi, e forse un po’ angosciati, sentire uno scienziato esprimersi con tanta certezza. Le certezze ce le aspettiamo da valori sociali consolidati nel tempo, e le cerchiamo nella fede.
Suona piuttosto preoccupante leggere baldanti rassicurazioni da parte di chi può solo sperimentare e verificare le reazioni dei test, né rasserena sentire risposte che vendono certezze assolute in base a schemi che solo in parte si possono applicare al caso specifico.
Non rasserena, anzi: porta a chiedersi se davvero possiamo fidarci di una scienza che non sa ammettere i suoi limiti, e pretende all’occorrenza di farsi anche fede.
Viale del tramonto
Alle cautele dell’Osservatore Romano sui test prenatali risponde sulla Stampa il ginecologo Silvio Viale, promotore in Italia della pillola abortiva.«È un diritto sacrosanto delle donne quello di avere un bambino sano».
Anche sorvolando sul “sacrosanto” – Viale sarà anche un esperto in materia, ma per giungere a insegnare il sacrosanto al Vaticano ci vuole decisamente molto coraggio… – sono interessanti le implicazioni che possiamo dedurre da questa affermazione.
Seguendo questa logica, infatti, una madre potrebbero rifiutare il proprio bambino non solo durante la gestazione, ma anche durante l’infanzia, in caso si manifesti qualche malattia più o meno grave: in fondo lei ha il diritto (sacrosanto) a un bambino sano, mica malato. Volendo andare più in là, potrebbe anche avere diritto a un figlio che le somigli, per non subire il trauma dei sorrisi maliziosi dei vicini di casa: vogliamo forse turbare la vita e pregiudicare la serenità futura di una cittadina che paga le tasse?
Per analogia il bambino dovrebbe avere il diritto a una madre sana: in caso contrario potrebbe rifiutarla (una volta raggiunta la maggiore età, si intende), o farle causa per una malattia ereditaria che sconterà senza colpe per tutta la vita. Se poi la madre dovesse ammalarsi, potrebbe disconoscerla anche in seguito: mica potrà perdere il suo tempo, sacrificando carriera e divertimento dietro a una lamentosa vecchina cui resta poco da vivere, vero?
Chissà se il discorso vale anche tra coniugi: in tal caso alle labili motivazioni che già permettono di interrompere un rapporto matrimoniale (“sei cambiato”, “non provo più quello che provavo”, “non ti amo più”, “non sei tu, sono io” e amenità similari) si potrà aggiungere anche un sereno “stai male, mentre io ti ho sposato che eri sano“, “la tua vita è destinata a finire, non vorrai sottopormi a un simile trauma”, “sai che ti amerò sempre, ma ora devo pensare al mio futuro“.
Sì, a dar retta ai luminari della scienza ci aspetta proprio un bel mondo. Un mondo dove dimenticare allegramente anticaglie come responsabilità, etica, solidarietà per vivere finalmente una vita libera, confortati dall’autorevole imprimatur della scienza.
Poco importa se ignorare le conseguenze delle proprie azioni sia una scelta miope e destinata a rivelarsi controproducente. Oggi è oggi, e domani si vedrà.
Mal che vada, basterà trovare un capro espiatorio.
Incertezze salutari
In Gran Bretagna gli atei sono partiti alla riscossa qualche mese fa con una serie di spot sui bus: una campagna che ora si allarga ad altri Paesi d’Europa, ma non senza qualche piccola delusione.
Succede in Spagna, per esempio, dove l’iniziativa atea è stata presa in contropiede dai cristiani: anticipando l’intenzione delle associazioni atee di “vestire” alcuni autobus con uno spot agnostico (“Probabilmente Dio non esiste, quindi smettila di preoccuparti e goditi la vita”), una piccola chiesa evangelica ha racimolato la somma necessaria per lanciare con le stesse modalità il messaggio “Dio sì che esiste: godi della vita in Cristo”.
Il bus “cristiano” ha cominciato a circolare per Madrid a Natale: il pastore evangelico Paco Rubiales, spiega Il Giornale, «ha deciso di investire le offerte domenicali dei suoi 75 fedeli per fare opera evangelica con un chiaro messaggio».
Due modi diversi di vedere il mondo: un’incertezza (“Probabilmente Dio non esiste”) contro una certezza (“Certo che Dio esiste”). Un messaggio egoista (“goditi la vita”) contro un messaggio che invita al senso di responsabilità (“godi la vita in Cristo”). Un messaggio edonista contro un messaggio di speranza.
Come già si diceva, suona decisamente paradossale che proprio gli atei invitino a non ricercare certezze, ritirandosi in buon ordine dietro a un rassegnato “probabilmente”: proprio loro, che non credono se non vedono, che non muovono un passo senza la sicurezza incontrovertibile di un test scientifico, che irridono i cristiani per quella sicurezza irrazionale chiamata fede.
Eppure il confronto spagnolo tra atei e cristiani a colpi di bus offre un altro spunto di interesse, e permette qualche considerazione positiva su entrambi i fronti. Il portavoce degli atei dichiara che l’obiettivo di questa iniziativa è «far pensare chi non è molto credente e dargli un appoggio»; il pastore Paco Rubiales «confessa che con la campagna evangelica vuole arrivare “ai non cristiani o ai cristiani addormentati”».
È curioso notare che gli intenti delle due campagne, agli antipodi per il messaggio comunicato, sono pressoché identici: con i loro spot sia gli atei, sia i cristiani desiderano risvegliare le coscienze e il senso di responsabilità, mettere le persone di fronte alla propria condizione e alle proprie preoccupazioni, rispolverare le domande sopite, riportare in primo piano i dubbi messi da parte per lasciare spazio al miraggio di una vita piena di vuoto.
E si sa, per riflettere seriamente c’è chi ha bisogno di una scossa (“Dio non esiste”) e chi di una speranza (“Dio esiste”).
In questo senso non è detto che la seconda soluzione sia più efficace della prima: demolire le proprie false certezze (“credo davvero in Dio o sono un ipocrita?”) può essere salutare, nell’ottica di una ricerca spirituale.
La provocazione della campagna atea potrebbe quindi portare ben lontano da facili edonismi, spingendo invece i madrileni alla ricerca di una soluzione a quel “probabilmente”: se il messaggio aiuterà gli spagnoli a confrontarsi onestamente con se stessi e a cercare la Risposta, la campagna atea potrebbe dare frutti inaspettati.