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Quelle Porte aperte sul dramma
Una volta all’anno, il convegno di Porte Aperte fa bene.
Fa bene, perché è organizzato bene: abbastanza denso da dare informazioni precise sulla condizione dei cristiani perseguitati, ma sufficientemente leggero da permettere l’interazione tra i presenti (quest’anno a Rimini erano oltre trecento: meno dello scorso anno, ma comunque un numero ragguardevole in tempi di crisi) e la riflessione sul nostro ruolo di cristiani occidentali, privilegiati da una condizione di libertà e da diritti impensabili fuori dal nostro continente.
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Dieci anni dopo
Risulta sempre un po’ retorico, e piuttosto pericoloso, parlare di decenni: come esseri umani facciamo difficoltà a ricordare i fatti dell’ultima settimana, e con fatica mettiamo insieme gli avvenimenti dell’anno, figurarsi il senso di inadeguatezza e l’angoscia nell’affrontare un periodo dieci volte più ampio.
Eppure, con il 31 dicembre 2009, si chiude il primo decennio del nuovo secolo, o – absit iniuria verbis – del terzo millennio. Un decennio è già un lasso di tempo che perde di vista la quotidianità per tendere alle unità di misura adottate dalla storia: in un decennio – specie in un decennio di un’epoca come questa – il mondo cambia significativamente.
C'è bisogno di noi
«Sentiamo che in questa crisi economico-finanziaria globale sono in gioco grandi scelte e grandi valori: se guardiamo alle cause e anche agli sforzi da mettere in atto per superarla, ci rendiamo conto che è essenziale un ristabilimento di valori spirituali e morali che sono stati largamente assenti dalle determinazioni dei soggetti economici e politici»: lo ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo discorso di qualche giorno fa di fronte ai 129 leader religiosi convenuti in Italia per il consueto summit pre-G8.
Se fino a qualche anno fa la fede veniva vista quasi con fastidio e relegata a un affare privato, e l’etica nel mondo del lavoro era un surplus per credenti particolarmente puntigliosi, dopo la crisi che ha squassato il mondo dell’economia i valori tornano in primo piano.
Fino a quando tutto va bene si tende a dimenticare il dovere a favore del piacere: e il piacere, per decenni, è stato l’edonismo di un sistema dove consumare significava tutto e tutto aveva un prezzo, dove l’imperativo era arricchirsi e ogni mezzo era lecito per farlo.
C’era bisogno di un terremoto per comprendere che l’economia non può essere un valore assoluto, che i valori non sono solo quelli di borsa, che l’arricchimento esteriore è arido senza un corrispondente arricchimento interiore.
A quel punto, disorientati, anche i famelici manager di Wall Street si sono dovuti fermare. Alcuni di loro, di fronte a una crisi economica e morale, hanno percorso di nuovo le navate delle chiese dopo anni spesi nel sacro tempio della Borsa.
Di fronte alla desolazione, ci si è concentrati di nuovo su quel mondo di piccole cose che si erano perse di vista: la famiglia, i gesti, i pensieri.
E, non ultima, la fede. Che non è un valore come gli altri, ma un valore aggiunto in qualsiasi sistema.
Ora questo ruolo è stato riconosciuto anche da Napolitano. I media non hanno enfatizzato le sue parole, anche se suona strano sentire un gentiluomo laico e di tradizione comunista sdoganare la spiritualità e i valori che ne discendono: «Nella visione che ispira la Costituzione della Repubblica italiana noi riconosciamo pienamente che hanno una dimensione pubblica e un valore pubblico il fatto religioso e la presenza religiosa. Senza pericolose confusioni tra politica e religione nella piena autonomia dell’una e dell’altra sfera abbiamo bisogno di tale apporto».
C’è bisogno di fede. Una fede viva, vissuta, coerente. Una fede che, applicata, porta a una morale convinta, non ipocrita ma profonda, nella vita del credente. Una morale che si trasforma in etica, un comportamento corretto fatto di serietà e onestà nel campo professionale.
Ora è ufficiale: anche il Capo dello Stato ne riconosce il bisogno e chiama i credenti a una presenza cristiana concreta, quotidiana, capace di restituire dignità a un mondo senza valori.
“… E voi mi sarete testimoni”, disse Gesù ai suoi discepoli. Oggi il mondo, la società, le autorità – quel mondo, quella società, quelle autorità che fino a ieri sottovalutavano la fede – ci invitano a non dimenticare quella raccomandazione.
C’è bisogno di noi
«Sentiamo che in questa crisi economico-finanziaria globale sono in gioco grandi scelte e grandi valori: se guardiamo alle cause e anche agli sforzi da mettere in atto per superarla, ci rendiamo conto che è essenziale un ristabilimento di valori spirituali e morali che sono stati largamente assenti dalle determinazioni dei soggetti economici e politici»: lo ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo discorso di qualche giorno fa di fronte ai 129 leader religiosi convenuti in Italia per il consueto summit pre-G8.
Se fino a qualche anno fa la fede veniva vista quasi con fastidio e relegata a un affare privato, e l’etica nel mondo del lavoro era un surplus per credenti particolarmente puntigliosi, dopo la crisi che ha squassato il mondo dell’economia i valori tornano in primo piano.
Fino a quando tutto va bene si tende a dimenticare il dovere a favore del piacere: e il piacere, per decenni, è stato l’edonismo di un sistema dove consumare significava tutto e tutto aveva un prezzo, dove l’imperativo era arricchirsi e ogni mezzo era lecito per farlo.
C’era bisogno di un terremoto per comprendere che l’economia non può essere un valore assoluto, che i valori non sono solo quelli di borsa, che l’arricchimento esteriore è arido senza un corrispondente arricchimento interiore.
A quel punto, disorientati, anche i famelici manager di Wall Street si sono dovuti fermare. Alcuni di loro, di fronte a una crisi economica e morale, hanno percorso di nuovo le navate delle chiese dopo anni spesi nel sacro tempio della Borsa.
Di fronte alla desolazione, ci si è concentrati di nuovo su quel mondo di piccole cose che si erano perse di vista: la famiglia, i gesti, i pensieri.
E, non ultima, la fede. Che non è un valore come gli altri, ma un valore aggiunto in qualsiasi sistema.
Ora questo ruolo è stato riconosciuto anche da Napolitano. I media non hanno enfatizzato le sue parole, anche se suona strano sentire un gentiluomo laico e di tradizione comunista sdoganare la spiritualità e i valori che ne discendono: «Nella visione che ispira la Costituzione della Repubblica italiana noi riconosciamo pienamente che hanno una dimensione pubblica e un valore pubblico il fatto religioso e la presenza religiosa. Senza pericolose confusioni tra politica e religione nella piena autonomia dell’una e dell’altra sfera abbiamo bisogno di tale apporto».
C’è bisogno di fede. Una fede viva, vissuta, coerente. Una fede che, applicata, porta a una morale convinta, non ipocrita ma profonda, nella vita del credente. Una morale che si trasforma in etica, un comportamento corretto fatto di serietà e onestà nel campo professionale.
Ora è ufficiale: anche il Capo dello Stato ne riconosce il bisogno e chiama i credenti a una presenza cristiana concreta, quotidiana, capace di restituire dignità a un mondo senza valori.
“… E voi mi sarete testimoni”, disse Gesù ai suoi discepoli. Oggi il mondo, la società, le autorità – quel mondo, quella società, quelle autorità che fino a ieri sottovalutavano la fede – ci invitano a non dimenticare quella raccomandazione.
Relatività perverse
“Il vigile non ha sempre ragione”: questa la conclusione cui è giunta la Corte di Cassazione, e che ha dato ragione a una agguerrita automobilista romana.
La signora, secondo il vigile, era passata con il rosso, e si era vista giungere a casa la relativa molta. «Convinta di essere dalla parte della ragione, di aver pigiato l’acceleratore con li verde si è rivolta al giudice di pace, sostenendo che il “pizzardone” aveva visto male e che la multa era da cancellare».
A sostegno della sua tesi portava alcuni testimoni oculari. A pensarci bene, alla signora vanno fatti i complimenti già per questo: di solito le multe arrivano con mesi di ritardo e in pochi ricordiamo una scena vissuta tanto tempo prima, figurarsi se saremmo in grado di recuperare testimoni presenti all’incrocio proprio quel giorno a quell’ora.
Com’era prevedibile, il giudice di pace le ha dato torto, ma la signora ha continuato la sua battaglia arrivando fino alla Cassazione che – con una delle classiche sentenze creative cui spesso ci ha abituato – le ha dato ragione.
Secondo la Cassazione, infatti, può accadere che in certe circostanze «in ragione della loro modalità di accadimento repentino non si siano potute verificare e controllare secondo un metro sufficientemente obiettivo ed abbiano pertanto potuto dare luogo ad una percezione sensoriale implicante margini di apprezzamento […] Quanto attestato dal pubblico ufficiale concerne non la percezione di una realtà statica (come la descrizione dello stato dei luoghi senza oggetti in movimento) bensì l’indicazione di un corpo o un oggetto in movimento».
Insomma, come dimostrò Einstein, tutto è relativo; quindi, come l’arbitro, anche il vigile può sbagliare una valutazione. Con il mezzo in movimento la prospettiva può risultare ingannevole e dare l’idea di qualcosa che, magari, agli occhi di altri non è così scontato.
Verrebbe da tirare un sospiro di sollievo: la sacralità del pubblico ufficiale è stata smantellata, finalmente non avremo torto per principio quando dovremo discutere con un vigile sull’applicazione del codice o sulla dinamica di un incidente.
Il sollievo, però, è solo momentaneo: come segnala un sito dedicato agli automobilisti, «È vero che in Italia ogni sentenza fa stato fra le parti (statuisce pienamente soltanto per le parti in causa), ma questa della Cassazione conferma che il verbale dei Vigili non fa piena prova fino a querela di falso. Si tratta di una conferma fondamentale».
Si comprende facilmente che, se la sentenza potrà riparare a qualche palese ingiustizia, sarà soprattutto il rifugio privilegiato degli impuniti, degli indisciplinati, di tutti coloro che ritengono di essere al di sopra della legge: le categorie che non vorremmo incontrare sulla nostra strada – quantomeno perché la rendono estremamente pericolosa – e che da oggi hanno un’arma in più per difendere le loro smargiassate.
Da anni, ormai, le sentenze smontano le leggi a suon di cavilli procedurali, sottigliezze amministrative, interpretazioni giuridiche originali: il risultato è una legge sempre più fai-da-te, in un mondo che conta sempre meno punti fermi.
Una prospettiva che non suona troppo rassicurante per il futuro.