Archivi Blog

Presenze luminose

Turisti senza bon ton“: di questo si lamentano i sindaci delle località turistiche, dalle città d’arte alle stazioni balneari. I primi cittadini, interpellati da un periodico, si rammaricano per l’abbigliamento succinto dei visitatori, gli schiamazzi notturni, l’abuso di alcol, e un senso di libertà che sfiora la mancanza di rispetto per i residenti (e, probabilmente, per gli altri villeggianti).

La storia si ripete ogni anno, e riguarda allo stesso modo gli stranieri in Italia e gli italiani all’estero: l’assenza di obblighi lavorativi (e, talora, familiari), la lontananza dalle abitudini e dalla consuetudine dei gesti quotidiani, l’ebbrezza del viaggio e della permanenza in una località mai vista prima è una miscela entusiasmante, ma che se non viene equilibrata nel modo giusto rischia di scatenare un circolo vizioso di esagerazioni. Con rischi per la salute, per la convivenza, e anche per la dignità.

Leggi il resto di questa voce

Pubblicità

Un atollo di infelicità

I media avevano dipinto Ben Southall, assistente sociale britannico, come l’uomo più fortunato del pianeta. Alcuni mesi fa, prevalendo tra 34 mila candidati, si era guadagnato “il lavoro più bello del mondo”: sei mesi come ospite su un atollo australiano, la classica incantevole isola deserta, con l’unico impegno di promuovere la località in chiave turistica attraverso il web, a fronte di un compenso di 85 mila euro.

Quando la notizia ha fatto il giro del mondo, lo hanno invidiato un po’ tutti: sei mesi di puro relax da trascorrere tra giornate su spiagge da sogno, notti in una villa da due milioni e mezzo di euro, campo da golf per battere la noia. E una paga da favola (oltre 14 mila euro al mese).

Leggi il resto di questa voce

Pieni di vuoto

«Hanno tutto, perché rubano?», si chiedevano disperate le mamme di quindici ragazzi della Milano e della Brescia bene, sorpresi ad alleggerire i turisti a Gardaland. Erano tutti figli di imprenditori, professionisti, commercianti, tutti vestiti alla moda, senza problemi di liquidità, con in tasca il cellulare all’ultimo grido.

Eppure nelle noiose – per loro – mattinate primaverili marinavano la scuola destinazione Gardaland per provare il brivido del furto. La direzione, dopo un’impennata di denunce da parte dei visitatori, ha interessato i Carabinieri di Peschiera, che in una giornata hanno fermato i ragazzi. Non si aspettavano di trovarsi di fronte la meglio gioventù, e non si aspettavano una banda così numerosa, tanto che per portarli in caserma hanno dovuto usare il pulmino del parco giochi.

«Dopo la denuncia ridevano e scherzavano tra loro», hanno raccontato i militari, «come se l’accusa di furto riguardasse altri».

E allora non si può non tornare all’interrogativo di partenza: «Hanno tutto, perché rubano?». I genitori hanno soddisfatto ogni loro capriccio dando loro tutto. A quanto pare, non abbastanza.

D’altronde, come tutti i genitori di questo mondo, non hanno potuto regalare ai figli ciò che non avevano: la felicità. Quella felicità che nasce dalla serenità di una vita che ha uno scopo. Probabilmente i poveri genitori hanno passato la vita ad arrivare, a guadagnare, ad accumulare, convinti che la quantità fosse la risposta al loro vuoto interiore.

Eppure, da buoni frequentatori delle boutique più note, avrebbero dovuto sapere che un falso resta un falso anche se è costruito con materiali pregiati. La qualità non si imita. La felicità non si raggiunge accumulando beni, emozioni, esperienze.

No, la felicità di una vita piena non potevano trasmetterla ai figli. E, quando alla vita manca un significato convincente, anche i valori rischiano di non bastare.

Non è sufficiente, ora, interrogarsi, disperarsi, rimproverarsi e rimproverarli. Forse addirittura non c’è stato niente di formalmente sbagliato, nell’educazione che hanno impartito ai loro ragazzi: niente, tranne l’obiettivo. Quando la morale diventa una convenzione ipocrita, quando gli assoluti diventano relativi, quando la fede diventa religione, allora la coscienza si addormenta, il divertimento si fa eccesso e il senso di tutte le cose – la vita in primis – si appanna inevitabilmente.

Sì, hanno avuto tutto, quei ragazzi; forse troppo. La felicità, però, è un’altra cosa.

Una pietra nell'anima

È interessante la storia dei due turisti americani che, dopo 25 anni, hanno deciso di restituire un pezzo di Colosseo.

A vedere le immagini si tratta di un sasso grande come un pugno, sottratto al monumento capitolino nel corso di una gita ed esposto fino a qualche giorno fa tra i souvenir di una vita.

Senza soddisfazione, però: ogni volta che lo guardavano, si sentivano in colpa.

Già, la colpa. La storia dei due turisti americani è, in fondo, anche la storia di tutti noi.
Chissà quante volte ci è capitato di prendere una pietra che non ci apparteneva.
Una pietra fisica o metaforica: magari solo una parola di troppo, una discussione sfociata in espressioni sgradevoli che hanno deteriorato un rapporto.

Da quella vicenda è rimasta una pietra nella bacheca della nostra anima. Un ricordo che vorremmo considerare una vittoria, e che invece ci pesa. E che non riusciamo più a liquidare.

Ogni volta che le passiamo davanti, quella pietra rompe gli schemi, gli equilibri, le soluzioni che pensavamo di aver trovato per darci pace.

E la colpa torna periodicamente a tormentarci, ogni volta che ripassiamo davanti alla vetrina di quel sasso.

A farci sentire meno colpevoli non basta nemmeno il semplice pentimento, e lo dimostra il fatto che quella pietra ci guarda dalla sua bacheca senza cambiare prospettiva.

L’unico modo per ritrovare la serenità è rimuovere quella pietra, rispedendola al mittente. Il pentimento, per essere efficace, ha bisogno di un atto concreto: il desiderio di recuperare, di ricucire, di rimediare.

Così, come i due turisti americani, anche noi dobbiamo rimettere la pietra dove l’abbiamo presa. Dobbiamo farlo, per gli altri e per noi stessi.

Anche se ormai è passato un quarto di secolo, non è mai troppo tardi per alleggerirsi.

Una pietra nell’anima

È interessante la storia dei due turisti americani che, dopo 25 anni, hanno deciso di restituire un pezzo di Colosseo.

A vedere le immagini si tratta di un sasso grande come un pugno, sottratto al monumento capitolino nel corso di una gita ed esposto fino a qualche giorno fa tra i souvenir di una vita.

Senza soddisfazione, però: ogni volta che lo guardavano, si sentivano in colpa.

Già, la colpa. La storia dei due turisti americani è, in fondo, anche la storia di tutti noi.
Chissà quante volte ci è capitato di prendere una pietra che non ci apparteneva.
Una pietra fisica o metaforica: magari solo una parola di troppo, una discussione sfociata in espressioni sgradevoli che hanno deteriorato un rapporto.

Da quella vicenda è rimasta una pietra nella bacheca della nostra anima. Un ricordo che vorremmo considerare una vittoria, e che invece ci pesa. E che non riusciamo più a liquidare.

Ogni volta che le passiamo davanti, quella pietra rompe gli schemi, gli equilibri, le soluzioni che pensavamo di aver trovato per darci pace.

E la colpa torna periodicamente a tormentarci, ogni volta che ripassiamo davanti alla vetrina di quel sasso.

A farci sentire meno colpevoli non basta nemmeno il semplice pentimento, e lo dimostra il fatto che quella pietra ci guarda dalla sua bacheca senza cambiare prospettiva.

L’unico modo per ritrovare la serenità è rimuovere quella pietra, rispedendola al mittente. Il pentimento, per essere efficace, ha bisogno di un atto concreto: il desiderio di recuperare, di ricucire, di rimediare.

Così, come i due turisti americani, anche noi dobbiamo rimettere la pietra dove l’abbiamo presa. Dobbiamo farlo, per gli altri e per noi stessi.

Anche se ormai è passato un quarto di secolo, non è mai troppo tardi per alleggerirsi.

Chi è stato?

“Chi è stato il primo ad aver tracciato un confine?” ci si chiedeva, con una certa dose di retorica, in tempi più ideologicizzati dei nostri.

Oggi, in un giorno qualsiasi dell’epoca più “post” della storia, vorremmo limitarci a chiedere chi ha cominciato a infierire su Denise.

La Denise di cui parliamo fa di cognome Pipitone, ed è una bambina di quattro anni scomparsa da casa nel 2004: una tra le sparizioni più eclatanti, almeno per eco mediatica, degli ultimi anni.

Vediamo i fatti. Nei giorni scorsi i giornali ci informavano di una clamorosa novità: una turista italiana in vacanza in Grecia ha incontrato una bambina molto simile a Denise. La bambina, raccontano le cronache, parla perfettamente l’italiano nonostante la madre – una trentenne albanese – non spiccichi parola nella nostra lingua.
Il giorno dopo le testate rilanciano: il dna di madre e figlia non corrispondono, si passerà quindi a confrontare le evidenze genetiche della bambina albanese con quelle della famiglia di Denise per verificare un’eventuale compatibilità.

Ieri un doppio contrordine: la polizia greca informa che il dna della presunta Denise corrisponde con quello della donna albanese che sostiene di esserne la madre. Non solo: la bambina biascia solo poche parole in italiano, quelle che servono per chiedere la carità ai turisti.

Probabilmente archivieremo amaramente questo ennesimo falso allarme senza farci domande, ma personalmente mi sento offeso. Offeso come lettore dei quotidiani, che hanno riportato una notizia basandosi su elementi manifestamente errati. Offeso come cittadino per una notizia data male e sviluppata peggio, che ha illuso e poi deluso sul volto della signora Pipitone.

Prima di dimenticare, in attesa della prossima bufala, sarebbe interessante capire chi abbia superato, stavolta, il confine della stupidità. Le ipotesi non sono molte.

Potrebbe essere stata la signora italiana turista in terra greca, reduce da un’overdose di serial polizieschi e tv del dolore. Certo, non è facile confondere una persona che “parla perfettamente” la nostra lingua con una che mette insieme due parole alla bisogna: in questo caso, evidentemente, la proprietà linguistica della signora è ai minimi termini (forse non ci sarebbe da stupirsi, visto il livello culturale medio nel nostro paese).

L’ipotesi alternativa? Sono stati i media a inventarsi quel “perfettamente” e perfino quella differenza di codice genetico che, a quanto pare, nessuno ha mai certificato.

Sia come sia, in ultima analisi è anche colpa nostra: non risulta che nessuno, sui principali giornali, si sia posto il benché minimo dubbio sui motivi di questa cantonata, segno che viene considerato normale sparare notizie inesistenti e che domani, al prossimo avvistamento, sarà la stessa cosa. Significa che ci troviamo di fronte a un giornalismo che diventa pour parler, un’informazione di terz’ordine che si allinea bellamente nei modi ai dibattiti inconcludenti del dopo partita.

Con una differenza: nei talk show sportivi non c’è di mezzo il dolore di una madre.