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Pillole di tenerezza
Negli Stati Uniti spopolano i “Cuddle Parties”, feste a base di coccole: una dozzina di persone pagano tra i 20 e i 40 dollari per incontrarsi e scambiarsi tenerezze. Al bando la passione e le cattive intenzioni: i partecipanti desiderano dare e ricevere solo affetto.
«E’ un’idea carina ma nasconde un sistema fuorviante – spiega la sessuologa Francesca Romana Tiberi – e può avere solo un effetto placebo. Il sollievo è transitorio, un po’ come se si prendesse un ansiolitico, e una volta passato il momento ci si sente ancora più soli».
Insomma: cercare affetto puntando su formule anomale è solo una conseguenza di un approccio sbagliato ma diffuso, e gli americani – al solito – hanno semplicemente monetizzato la tendenza. Però rende bene l’idea dell’epoca disperata che stiamo vivendo.
La crociata del latte
L’allattamento è osceno? La domanda si ripropone in questi giorni in seguito a una polemica nata in seno a Facebook, il più noto social network del web.
«Lo scorso ottobre Heather Farley, utente di Facebook – scrive l’agenzia Zeusnews -, pubblicò una foto di sé stessa che allattava il figlio appena nato. L’immagine venne prontamente rimossa, e Heather Farley ne postò un’altra. Allora ricevette una nota da Facebook, che le intimava di rimuovere la fotografia pena la chiusura dell’account».
La donna, per tutta risposta, ha dato vita a un gruppo di interesse – un club telematico – chiamandolo “Hey, Facebook, breastfeeding is not obscene!” (“Ehi, Facebook, l’allattamento non è osceno!”).
L’allattamento è certamente qualcosa di assolutamente naturale, e da incoraggiare. Probabilmente potremmo considerare qualcosa di simile anche il concepimento, il parto e molte altre fasi cruciali della vita; come si può però intuire, questo non giustifica una loro esibizione in luogo pubblico.
Forse il problema andrebbe affrontato a monte, chiedendosi cosa spinga a mostrarsi mentre si allatta. Succede sempre più spesso nei parchi, nei centri commerciali e in altri luoghi di passaggio di vedere una madre che tira fuori il seno e nutre il pargolo. Così, senza problemi, in pubblico. Se qualcuno osa obiettare, emergono spontanee le argomentazioni più classiche sulla gioia della maternità che si vorrebbe negare, sull’incoerenza di chi vorrebbe vedere nascere più bambini ma non accetta che le madri allattino (come se non fosse possibile adottare soluzioni diverse dal farlo ovunque).
Naturalmente a queste si aggiunge la solita spruzzata di “benaltrismo”, così comune ormai ogni volta che veniamo colti in fallo: immancabile l’obiezione sul fatto che “la volgarità è altrove”, che la televisione è peggio, che ormai i bambini vedono di tutto e una mamma che allatta non è poi peggio delle veline, anzi.
Insomma, si prospetta una situazione ormai classica: contro la semplice richiesta di una maggiore sobrietà parte una crociata che addita, denuncia, lancia allarmi. Inutili, perché la richiesta di non allattare in pubblico non riguarda la sostanza, ma la forma. Non è questione di oscenità, ma di buona educazione. Non è sintomo di intolleranza, ma di buona creanza. E in ogni caso – almeno per quanto ci riguarda – è una richiesta, non un’imposizione: speriamo che i paladini del diritto di espressione per tutti non ci neghino il piacere di rivendicare il buonsenso.
Facebook probabilmente ha usato gli argomenti sbagliati. Ma la neomamma, per parte sua, dovrebbe forse riscoprire l’intimità di un momento intenso e riservato come la maternità.
Egualitarismi travisati
Il Corriere dedica un articolo al secolare conflitto tra bellezza e sapere.
Prima scena. Un gruppo di studentesse universitarie londinesi partecipa a uno dei tanti concorsi di bellezza organizzati per attirare gli sguardi maschili e illudere le menti femminili che l’estetica basti a costruirsi un futuro (una su mille ce la fa, le altre arrancano. E forse, a ben guardare, finisce meglio per quelle che non ce la fanno).
Sia giusto o sbagliato, succede: in ogni stagione, in ogni parte del mondo.
Seconda scena. Un gruppo di studenti inviperiti contesta il concorso di bellezza. «Questa gara va cancellata. Veniamo all’università per essere giudicati sulla base della preparazione accademica e non per mostrare caratteristiche esteriori», ha detto una rappresentante studentesca davanti al locale dove aveva luogo la sfilata.
In fondo non c’è niente di strano: le fanciulle hanno la libertà di esporre le loro grazie, le femministe il diritto di contestare la mercificazione della bellezza esteriore. Quel che stupisce, semmai, sono gli argomenti usati.
Non abbiamo motivo né interesse a difendere un genere di manifestazione ormai inflazionato, che con gli anni ha perso in termini di buon gusto e guadagnato in banalità.
Ma la logica non è un’opinione. Nessuno mette in dubbio che l’università non sia il luogo per esporre le proprie velleità da veline (anche se, con un rapido giro in biblioteca, spesso si resterebbe convinti del contrario). Nessuno mette in dubbio che non siano le caratteristiche esteriori a garantire un risultato accademico (anche se, dalle cronache degli ultimi anni, la si potrebbe pensare diversamente).
Il fatto è che suona ridicolo indignarsi perché «il concorso esclude le ragazze che non hanno le caratteristiche per comparire sulle pagine delle riviste glamour».
Non siamo tutti uguali (e meno male). L’importante è non considerare questa differenza un handicap e non vivere la differenza con invidia, quanto piuttosto come arricchimento.