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Oltre i carboni ardenti

La vita di una celebrità è strana: a volte ci si prepara coscienziosamente per anni, si attraversano tutti i gradi del cursus honorum, dalla gavetta al nome in cartellone, e poi si finisce per venir ricordati per qualcosa di anomalo, talvolta perfino di poco attinente con la propria specializzazione.

I quotidiani, in questi giorni, ci ricordano che qualcosa di simile è successo a Mino Damato: giornalista, persona colta e di gran cuore, che i più ricordano per aver camminato sui carboni ardenti in una lontana edizione di Domenica In (quando Elisabetta Gardini non era un parlamentare della Repubblica, ma una giovane conduttrice televisiva).
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Roba da chiodi

“Se non tocchi ferro non sarai mai un vip”: sabato scorso Mario Baudino sulla Stampa dedicava un articolo alle superstizioni dei personaggi famosi, raccolte e analizzate nel libro di due antropologi.

Baudino – ispirandosi evidentemente al volume in questione – spiega il motivo per cui, nel tentativo di contrastare la malasorte, si “tocca ferro”: scrive Baudino nel suo articolo che «La Bibbia vieta chiodi di ferro per costruire il Tempio di Gerusalemme; e non è escluso che l’abitudine di toccarlo in circostanze particolari sia nata per dominarne la carica negativa».

Ragionamento invero piuttosto contorto, per quanto la storia dell’umanità non si sviluppi sempre in maniera lineare.

Fatta salva questa premessa, ai lettori più attenti non sarà sfuggita un’incongruenza di fondo: la Bibbia non vieta in alcun luogo l’utilizzo di chiodi di ferro, tanto che – narrano le Cronache – il re Davide «preparò pure ferro in abbondanza per i chiodi dei battenti delle porte e per i ganci».

Il riferimento, semmai, potrebbe riguardare un’altra vicenda, citata in Deuteronomio: quando il popolo di Israele era in procinto di entrare nella terra promessa, Dio diede al suo popolo alcune indicazioni, tra cui «Quando dunque avrete passato il Giordano… edificherai pure un altare al Signore, che è il tuo Dio: un altare di pietre, sulle quali non passerai ferro».

Si tratta però di una storia sconosciuta ai più e, anche per questo, ben lontana dalla possibilità di dare origine a una qualche forma di maledizione.

La Bibbia, si sa, è allergica alla superstizione e lo dice chiaramente. Anche se, forse per un riflesso inconscio, l’autore ha avuto un’intuizione fondamentale: sono stati infatti proprio alcuni chiodi – quelli piantati nelle mani e nei piedi del Figlio di Dio – a cambiare radicalmente, in positivo, la vita di milioni di persone.

Dal giusto al bene

Di falsi invalidi è pieno il nostro paese: dai telefonisti sordi ai ciechi con la patente, periodicamente emergono casi emblematici di un malcostume nazionale. D’altronde c’è da capirli: in mancanza di un’etica solida, non è facile dire no a un’indennità integrativa anche quando non se ne avrebbe il diritto. Lo fanno tutti, perché io no?

Ma non è solo questione di soldi: si sa, il denaro va e viene, e qualche espediente per riempire il portafogli si trova sempre. Quello che è difficile recuperare in altro modo è il privilegio. Il privilegio del contrassegno.

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Trattamento da vip

Che favola deve essere stato quel 26 maggio 1969 per Jerry Levitan: all’epoca era un ragazzo di 14 anni con una forte dose di inventiva, tanto da improvvisarsi giornalista e presentarsi nell’albergo del suo idolo, John Lennon. Era così convincente, nel suo travestimento, che non solo riuscì a entrare, ma Lennon gli dedicò quasi un’ora parlando della sua carriera artistica.

Il Corriere rievoca che «Mentre i giornalisti veri aspettavano fuori dalla porta della suite, John regalò al suo nuovo amico un disco, autografò la copia di «Two Virgins»… Poi lo mandò a un concerto, quella sera, al posto suo: “Date al mio amico il trattamento da vip che avreste riservato a me“, disse Lennon».

Non sappiamo se Levitan – che oggi si divide tra il suo ruolo di avvocato e impegni di attore e intrattenitore – dopo il bluff dell’intervista abbia trovato quella sera anche il coraggio di presentarsi a quel concerto, ma immaginiamo cosa possa significare trovarsi a un concerto per conto di un personaggio di quel livello: un trattamento che difficilmente si potrebbe provare altrimenti.

Al di là dell’immagine da guru che Lennon scelse nell’ultima fase della sua breve vita, e sorvolando sulla più celebre fanfaronata del personaggio («Adesso noi Beatles siamo più famosi di Gesù», disse scherzosamente nel 1966), la richiesta dell’artista nel congedare Levitan ha qualcosa di familiare.

«Date al mio amico il trattamento da vip che avreste riservato a me» è, in fondo, una buona parafrasi di quello che Gesù chiede di fare a ogni cristiano coerente. Riecheggia quella chiosa promettente e minacciosa, quel «… lo avrete fatto a me» che chiude la raccomandazione a dimostrare amore verso il bisognoso.

“Trattatelo come avreste trattato me”: come si sarebbero comportati gli organizzatori di quel concerto, se Lennon si fosse presentato? Gli avrebbero riservato la prima fila, lo avrebbero scortato al suo posto, gli avrebbero offerto tutti i comfort disponibili, si sarebbero fatti in quattro per venire incontro alle sue esigenze. In poche parole, il proverbiale trattamento da vip.

“… lo avrete fatto a me”. Superfluo chiedersi cosa faremmo se Gesù ci chiedesse un bicchere d’acqua, o qualche spicciolo per un panino: probabilmente lo accompagneremmo personalmente, ci assicureremmo che trovasse le condizioni ideali, e all’occorrenza ci impegneremmo in prima persona per garantirgliele. Anche qui, un trattamento da vip.

Non so voi, ma a me fare scivolare una moneta nel bicchiere di un indigente non è un trattamento da vip. E non lo è lo sguardo scocciato che spesso abbiamo nei confronti di chi ci chiede aiuto. Non lo è nemmeno il tentativo di evitare qualcuno che ci potrebbe chiedere aiuto per un trasloco, un passaggio, un prestito.

Trattatelo come trattereste me: nel 1969 sarebbe stato più facile – e di maggiore soddisfazione – farlo direttamente per Lennon, e oggi sarebbe più comodo e piacevole farlo direttamente per Gesù. Non è semplice stare vicino a chi soffre, a chi è in difficoltà, a chi non emana un odore gradevole. Ma siamo chiamati a farlo, e a farlo “come avreste fatto a me”.

Nel 1969 gli organizzatori di quel concerto non avrebbero mai osato screditarsi bistrattando un amico di John Lennon, quantomeno per non rischiare l’imbarazzo di vederselo comparire a metà serata e di dovergli dare improbabili spiegazioni sui perché di un tale comportamento.

Viene da chiedersi come mai invece noi, che pure consideriamo ancora Gesù Cristo più famoso – e importante – di John Lennon, ci permettiamo di deluderlo, offrendo ai suoi “amici” un trattamento diverso da quello che, certamente, riserveremmo a lui.

Chissà, forse siamo troppo sicuri che non comparirà a breve termine per chiedere spiegazioni.