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La crisi del volontariato
L’altruismo sta morendo. A segnalarlo è Riccardo Bonacina, direttore editoriale di Vita Magazine, che in un intervento sul Corriere della Sera lamenta un dato preoccupante: negli ultimi tre anni il numero di coloro che si dedicano al volontariato è diminuito del 10%.
Un crollo che si spiega con l’assenza di una politica adeguata da parte delle autorità preposte, una linea capace di valorizzare l’impegno di chi dedica il suo tempo ai bisognosi, incoraggiando altri a seguirne l’esempio. Ma non solo.
Generosità a termine
“Italiani generosi, ma meno di prima“: un’indagine del Corriere segnala come sia calata da parte dei privati la disponibilità a sostenere associazioni benefiche.
A risentirne di più sono state le realtà che si occupano di sanità e di ricerca scientifica, che hanno subito anche il contraccolpo di una minore generosità da parte di aziende e fondazioni.
Non che manchi l’interesse per il bene altrui: 9 milioni e 200 mila contribuenti, nel 2008, hanno destinato il loro cinque per mille alle onlus convenzionate con lo Stato, e in particolare alle realtà coinvolte nel sociale (ai primi posti Medici senza Frontiere, Emergency, Unicef).
Si può dare di più
I Salwen sono una classica famiglia americana, di quelle che i film hanno reso un simbolo degli Stati Uniti: padre, madre, due figli (ovviamente maschio e femmina), una villa comoda con quattro stanze e altrettanti bagni, e poi il giardinetto, un’auto confortevole e tutto il resto.
In questo resto era compresa anche una vita da buoni cristiani, di quelle che noi dovremmo guardare sentendoci inadeguati: facevano beneficenza, il padre organizzava aste di abiti usati per raccogliere fondi da dare ai poveri, i figli svolgevano ore di volontariato (da noi, invece, se un figlio si propone di dedicare tempo ai bisognosi, perfino il cristiano più maturo è tentato di replicare: “cosa ci guadagni?”. Segno che la cultura materialistica forse è un problema più marcato di quanto vorremmo credere).
Insomma, come sopra: la classica famiglia americana. Fino a quando una domanda ha attraversato la loro mente e (soprattutto) la loro vita.
Un drammatico venerdì
Deve essere stata una scena drammatica, quella che si è presentata ai soccorritori venerdì mattina su quel viadotto della Messina-Palermo. Un’auto accartocciata, poco più di un rottame di cui a stento si riconosce il modello. Due corpi sull’asfalto. Uno proiettato giù dal burrone.
Una scena di guerra in un tratto stradale poco sicuro, che già in passato ha causato vittime, reso ancora più insidioso dalla pioggia caduta abbondante nelle ore precedenti.
In quell’auto c’erano un uomo e quattro donne. Facevano parte di una comunità evangelica tra le più numerose di Messina. Chiariamolo una volta per tutte: ricordare questo dettaglio non è un atto di cinico sciovinismo. Le loro vite certo non contavano più di quelle di altri esseri umani. Ma per noi erano speciali.
Tra di noi ci chiamiamo “fratelli”, e non è un caso: ci unisce un legame forte, che ci fa sentire vicini anche quando ci conosciamo a malapena, o non ci conosciamo affatto: pur provenendo da contesti sociali, culturali, geografici diversi, sappiamo di aver fatto la stessa scelta di vita. La scelta di accettare l’amore di Dio nella nostra vita e di seguire con coerenza, per amore, l’insegnamento di Gesù Cristo nella vita quotidiana, nel comunicare la speranza di una nuova vita, nell’impegno concreto per gli altri.
Era proprio per questo desiderio che i cinque si erano messi in viaggio quella mattina: stavano andando a Palermo per un convegno dedicato alle associazioni di volontariato penitenziario, per focalizzare e approfondire le opportunità di un impegno difficile come quello di stare vicino a chi nella propria vita ha sbagliato, incoraggiandolo a cercare una seconda opportunità.
Nicola Arena è malconcio ma ancora tra noi. Responsabile della Congregazione cristiana evangelica di Messina, è un’anima instancabile: il suo impegno cristiano a tutto tondo, la sua predicazione chiara, competente e senza fronzoli lo hanno fatto apprezzare, nel corso degli anni, in tutta Italia.
Non più tardi di qualche settimana fa era a Pordenone, insieme alla sua amata compagna Grazia, incaricato di portare un messaggio in occasione dei 25 anni della chiesa locale.
In più occasioni abbiamo avuto il piacere di averlo ospite nei nostri programmi, su crc.fm, per parlare di dottrina cristiana. Sempre disponibile, sempre preciso, sempre umile («chiamami Nicolino, ti prego»).
Nicola è ancora tra noi, dicevamo. Non è andata altrettanto bene a sua moglie Grazia, né a Claudia.
Non possiamo sapere perché, né vogliamo aggiungere frasi banali, in un momento di dolore come questo.
Preferiamo stringerci in un silenzioso ma sentito abbraccio a Nicola e ai suoi figli. Ci lega un’ormai antica conoscenza, rinfocolata di quando in quando da occasioni di incontro.
Ma, soprattutto, siamo fratelli. E i fratelli, insieme alla speranza, sanno condividere anche la sofferenza.
Giovani di ritorno
Famiglia Cristiana questa settimana dedica un servizio a un interessante fenomeno: si parla delle “sempre più numerose coppie di anziani che si dedicano al volontariato”.
Il titolo è accattivante: “Il pensionato va in missione. Dopo una vita intera dedicata al lavoro, ai figli e ai nipoti, prendono il largo in spirito evangelico e vanno ovunque ci sia bisogno di loro. Magari per aiutare preti amici”.
Si racconta la storia di due “ottantacinquenni, ingegnere elettronico lui, architetto lei, 57 anni di matrimonio, quattro figli e 12 nipoti. Questa coppia ha conservato uno spirito così giovanile da essere stata di recente due volte in Ruanda“.
E poi c’è il 65.enne che racconta: «Sulla soglia della pensione, dopo una vita lavorativa intensa, con un gruppo di amici ci siamo chiesti: “E adesso cosa facciamo?”. Abituati a girare il mondo per lavoro, abbiamo continuato a farlo a nostre spese per gratuità, senza inventarci niente, solo rispondendo ai bisogni che ci siamo trovati davanti».
L’ex direttore della Sea, «da sempre impegnato nella sua società a ottenere spedizioni a costo zero di generi di prima necessità in Kazakhstan, oggi che è in pensione ha “adottato”, insieme all’amico Scarfone, una trentina di giovani kazaki, organizzando corsi in Italia per manager, così da favorire poi la nascita di un’imprenditorialità locale».
E poi un ex dirigente HP, che sta portando avanti progetti «fuori dagli schemi e riflettono l’imprevedibilità della vita e degli incontri: una scuola in Cile per 150 ragazzi disabili, corsi professionali alla periferia di Nairobi, la clinica per malati terminali».
Infine un ex amministratore delegato che spiega come «L’opera che più mi ha entusiasmato è stata in Uganda, dove siamo riusciti a collegare in rete 46 centri medici sparsi in tutto il Paese con l’ospedale centrale di Kampala».
Insomma: anziani, ma per niente fuori dai giochi. Persone che hanno visto il ritiro dalla scena lavorativa come una nuova sfida, e non come una sconfitta.
Nessun sintomo di depressione, ma tante energie e il desiderio di spenderle nel modo migliore: mettendo a disposizione i propri talenti di amminsitratori, le proprie competenze, i propri ex contatti professionali in maniera disinteressata per il bene degli altri.
Quant’è diversa l’immagine di questi giovani di ritorno da quella del classico pensionato disteso sul divano, che macina talk show e reality, chiama per nome i conduttori, si appassiona alle gesta dei corteggiatori televisivi, si commuove di fronte alle lacrime preconfezionate dei postini catodici.
Temiamo di conoscerne più di qualcuno, purtroppo. E allora vorremmo proporre un ulteriore impegno a chi ha saputo mettere la propria vita post-lavorativa al servizio degli altri: non limitatevi ad aiutare chi ha bisogno, ma siate testimoni di ciò che si può fare a fine carriera; raccontate sogni e opportunità ai tanti pensionati che tirano sera senza uno scopo.
Date una vera speranza a quanti vedono in una chiave egoistica e limitata il loro “meritato riposo”.
Fatelo, per favore, e non sentitevi sminuiti: anche questo, in fondo, è dare al prossimo un futuro migliore.
C'è chi dice sì
Le feste stanno per arrivare, e ognuno si prepara secondo la propria inclinazione e la propria coscienza: c’è chi dice “natale” e pensa a luci, alberi, regali; chi all’intimità (o all’allegra confusione) di una giornata in famiglia; chi a concerti ed evangelizzazioni; chi alla serenità di letture, riflessioni, ritiri spirituali.
C’è anche chi riesce a distogliere lo sguardo da se stesso e si concentra sugli altri: è raro, ma capita.
A testimoniarlo c’è una lettera che ci è giunta in redazione in questi giorni:
Buongiorno,
vi scrivo per avere alcune informazioni.
Vorrei passare un Natale speciale, vorrei fare volontariato aiutando le persone.
Per questo vi scrivo, mi piacerebbe sapere se potreste indicarmi qualche opera di aiuto (bambini, anziani, mense per poveri, ragazzi down…), dove poter aiutare le persone a passare un Natale migliore, e soprattutto portare la PAROLA DI DIO.
Vi ringrazio anticipatamente per l’attenzione prestatami,
DIO VI BENEDICA
sono lettere di persone semplici, sconosciute, ma che denotano un grande cuore.Lettere rare, ma che non passano inosservate.
Lettere che mettono noi per primi a confronto con la nostra ordinarietà, la limitatezza dei nostri orizzonti, la pochezza dei nostri programmi.
Spesso “le feste”, circonlocuzione che normalmente si usa per evitare un termine cui molti cristiani sembrano allergici, sono un’occasione sprecata. L’alibi di una festa che non celebriamo ci autorizza, nella nostra logica limitata, a smarcarci da qualsiasi impegno legato al periodo: pensiamo che qualunque riferimento alla festa suonerebbe troppo carnale per costruirci sopra un’occasione di testimonianza cristiana.
Peccato che la Bibbia, pur senza parlare del 25 dicembre, ci dica esattamente il contrario. Ci dice di cogliere tutte le occasioni. Di approfittare di ogni opportunità. Ci dice di farci greci con i greci e giudei con i giudei per raggiungerli con il messaggio di speranza contenuto nel vangelo.
C’è chi dice no. Ma, grazie a Dio, c’è anche chi dice sì. Chi non si preoccupa di una data, ma dell’amore che può donare. Chi non si lascia turbare da quel che pensano gli altri, e desidera solo comunicare la gioia della propria fede anche a fine dicembre, a prescindere da ogni considerazione ulteriore. Chi desidera utilizzare quella manciata di giorni festivi per far felici anche altri, e non solo la propria famiglia.
Di fronte a questi esempi di altruismo cristiano ci sentiamo piccoli. Ed è un bene, se ci aiuta a crescere.
God bless you, merry gentleman.
C’è chi dice sì
Le feste stanno per arrivare, e ognuno si prepara secondo la propria inclinazione e la propria coscienza: c’è chi dice “natale” e pensa a luci, alberi, regali; chi all’intimità (o all’allegra confusione) di una giornata in famiglia; chi a concerti ed evangelizzazioni; chi alla serenità di letture, riflessioni, ritiri spirituali.
C’è anche chi riesce a distogliere lo sguardo da se stesso e si concentra sugli altri: è raro, ma capita.
A testimoniarlo c’è una lettera che ci è giunta in redazione in questi giorni:
Buongiorno,
vi scrivo per avere alcune informazioni.
Vorrei passare un Natale speciale, vorrei fare volontariato aiutando le persone.
Per questo vi scrivo, mi piacerebbe sapere se potreste indicarmi qualche opera di aiuto (bambini, anziani, mense per poveri, ragazzi down…), dove poter aiutare le persone a passare un Natale migliore, e soprattutto portare la PAROLA DI DIO.
Vi ringrazio anticipatamente per l’attenzione prestatami,
DIO VI BENEDICA
sono lettere di persone semplici, sconosciute, ma che denotano un grande cuore.Lettere rare, ma che non passano inosservate.
Lettere che mettono noi per primi a confronto con la nostra ordinarietà, la limitatezza dei nostri orizzonti, la pochezza dei nostri programmi.
Spesso “le feste”, circonlocuzione che normalmente si usa per evitare un termine cui molti cristiani sembrano allergici, sono un’occasione sprecata. L’alibi di una festa che non celebriamo ci autorizza, nella nostra logica limitata, a smarcarci da qualsiasi impegno legato al periodo: pensiamo che qualunque riferimento alla festa suonerebbe troppo carnale per costruirci sopra un’occasione di testimonianza cristiana.
Peccato che la Bibbia, pur senza parlare del 25 dicembre, ci dica esattamente il contrario. Ci dice di cogliere tutte le occasioni. Di approfittare di ogni opportunità. Ci dice di farci greci con i greci e giudei con i giudei per raggiungerli con il messaggio di speranza contenuto nel vangelo.
C’è chi dice no. Ma, grazie a Dio, c’è anche chi dice sì. Chi non si preoccupa di una data, ma dell’amore che può donare. Chi non si lascia turbare da quel che pensano gli altri, e desidera solo comunicare la gioia della propria fede anche a fine dicembre, a prescindere da ogni considerazione ulteriore. Chi desidera utilizzare quella manciata di giorni festivi per far felici anche altri, e non solo la propria famiglia.
Di fronte a questi esempi di altruismo cristiano ci sentiamo piccoli. Ed è un bene, se ci aiuta a crescere.
God bless you, merry gentleman.
Vera passione
La Stampa racconta l’originale vicenda di una tifoseria tedesca, quella del 1. FC Union di Berlino.
Con lo stadio inagibile e le istituzioni pubbliche latitanti in quanto a fondi, gli ultrà si sono organizzati: dallo scorso giugno ogni giorno alle 6.30 un gruppo di irriducibili si incontra allo stadio e comincia a trafficare tra cazzuole, impalcature, carriole per rimettere in sesto la struttura. Lo fanno gratuitamente, per pura passione: unica consolazione concreta, nel pomeriggio passano alcune sostenitrici con un vassoio di dolci e del tè caldo.
«Nessuno si è pentito di aver preso questa decisione – dice la coordinatrice del gruppo -: la 1. FC Union è come una grande famiglia e ora i tifosi sono ancora più uniti».
Non si tratta (solo) di sfaccendati, naturalmente: ci sono persone che vengono solo per brevi periodi, altre che sono arrivate dal nord della Germania per un giorno solo, qualcuno addirittura prende ferie per poter dare una mano.
Risultato? A febbraio i lavori saranno conclusi e lo stadio sarà a norma, oltre a poter contare sulla copertura di tutte le tribune.
È una storia che sorprende e insegna molto. I tifosi della 1. FC Union non si sono scoraggiati, non hanno organizzato cortei o manifestazioni di piazza per chiedere a “Berlino ladrona” (se tutto il mondo è paese, i sentimenti saranno simili a ogni latitudine) i finanziamenti per rimettere a nuovo il glorioso stadio. Non hanno nemmeno archiviato la questione con un sospiro e un’alzata di spalle.
Sulle spalle, invece, hanno caricato mattoni, sacchi di cemento, attrezzature. Si sono rimboccati le maniche e, giorno dopo giorno, si sono messi al lavoro con un obiettivo. Ognuno lo ha fatto quando e come ha potuto. Senza crogiolarsi sotto il sole, senza scoraggiarsi davanti alla pioggia.
E i risultati sono arrivati.
I tifosi sono così. Spendono tutto quel che possono, pur di seguire la loro squadra; si identificano, sono orgogliosi della loro identità, sfruttano il tempo libero durante la settimana per organizzare il sostegno domenicale con cori e striscioni.
Lo fanno con pazienza, senza cambiare idea alle prime difficoltà, e non vengono meno alla loro fede (calcistica) nemmeno di fronte alle delusioni più cocenti.
Qualcuno obietterà che si tratta di un impegno eccessivo per il contesto effimero cui viene applicato.
Sia come sia, il paragone con i cristiani e le loro chiese è quantomeno impietoso.