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Il costo di un impegno
«È finita l’epoca del tutto gratis», ha annunciato il magnate dei media Rupert Murdoch: lo ha stabilito dopo aver annunciato una perdita di tre miliardi di dollari, nell’ultimo anno, da parte del suo gruppo multimediale – che, tra gli altri, comprende Wall Street Journal, Times, Sun e la piattaforma satellitare Sky -.
La notizia era nell’aria già da tempo, e probabilmente già in molti avrebbero voluto sanare l’anomalia per la quale è normale comprare il giornale o pagare la tv satellitare, ma ogni contenuto presente su Internet deve essere sempre e comunque gratis.
Una Bibbia per Britney
«Una punizione d’altri tempi per la cantante Britney Spears. La regina del pop dovrà leggere la Bibbia per almeno un’ora al giorno, al fine di rinsaldare i propri traballanti principi morali. La “condanna”, scrive il Daily Mail, le è stata imposta dal padre Jamie, che cura anche gli interessi economici della turbolenta cantante».
Pare che il padre Jamie abbia fissato per Britney «una serie di rigide regole di comportamento ad evitare che prenda una delle solite sbandate nel corso del suo ciclo di esibizioni, il tour “Circus Starring Britney Spears”».
Così «la obbliga a leggere la Bibbia per almeno un’ora prima di andare in scena», oltre ad averle vietato l’accesso al web.
Non vogliamo giudicare la decisione del padre, anche se dobbiamo rilevare che Britney continua a dare prova di un comportamento non proprio cristiano.
Naturalmente la lettura della Bibbia non dovrebbe essere una punizione ma un privilegio. Non va però escluso che, anche da una lettura incoraggiata, possa partire un cambiamento positivo.
Possiamo discutere sull’opportunità del provvedimento, ma certo non possiamo biasimare il padre per aver provato a cambiare la figlia. D’altronde, dopo averla vista coinvolta in una girandola di vicende non troppo felici tra divorzi, cause di affidamento dei figli, frequentazioni poco raccomandabili, dipendenze assortite, recuperi e ricadute, il signor Spears deve aver deciso di riprendere in mano la situazione per evitare che Britney arrivi a un punto di non ritorno.
Forse, nel tornare a fare il padre fuori tempo massimo, sarà stato mosso dalla consapevolezza di un fallimento educativo: in fondo la qualità di un genitore si valuta anche (o soprattutto?) per quel che il figlio diventa da adulto, quando ti lascia per altri lidi e magari rifiuta altri consigli da parte tua. Naturalmente le variabili sono molte, ma al momento dell’emancipazione si misura anche la qualità di un’educazione. Perché nuotare in mare aperto è ben diverso dall’esercitarsi in piscina con un istruttore pronto a riportarti a galla.
Dopo aver lasciato e quasi rinnegato la famiglia, Britney Spears è rimasta a galla decisamente poco. Naturalmente non è colpa sempre e solo dei genitori, anche se è sintomatico che la sorella di Britney, anche lei attrice, sia rimasta incinta ad appena 16 anni.
Non sappiamo se il signor Jamie sia stato un padre permissivo o rigido, né se abbia permesso a malincuore alla figlia di diventare la star di Disney Channel o se sia stato per lui un motivo di orgoglio (come tante mamme che spingono le figlie nel mondo dello spettacolo).
A dire il vero non sappiamo nemmeno quale sia la sua condizione spirituale. Sappiamo solo che sua figlia, nei momenti di lucidità, ha fatto spesso riferimento a valori cristiani («grazie per le vostre preghiere», aveva scritto ai suoi fan uscendo da una delle tante crisi) che rimanderebbero a un’educazione di stampo evangelico.
Sia come sia, nel tentare di riportare la figlia in carreggiata il signor Spears ha fatto una scelta estrema, ma forse l’unica che poteva fare in una situazione così drammatica: farla ripartire da capo. O meglio, dalla Bibbia.
Speriamo che funzioni.
La crociata del latte
L’allattamento è osceno? La domanda si ripropone in questi giorni in seguito a una polemica nata in seno a Facebook, il più noto social network del web.
«Lo scorso ottobre Heather Farley, utente di Facebook – scrive l’agenzia Zeusnews -, pubblicò una foto di sé stessa che allattava il figlio appena nato. L’immagine venne prontamente rimossa, e Heather Farley ne postò un’altra. Allora ricevette una nota da Facebook, che le intimava di rimuovere la fotografia pena la chiusura dell’account».
La donna, per tutta risposta, ha dato vita a un gruppo di interesse – un club telematico – chiamandolo “Hey, Facebook, breastfeeding is not obscene!” (“Ehi, Facebook, l’allattamento non è osceno!”).
L’allattamento è certamente qualcosa di assolutamente naturale, e da incoraggiare. Probabilmente potremmo considerare qualcosa di simile anche il concepimento, il parto e molte altre fasi cruciali della vita; come si può però intuire, questo non giustifica una loro esibizione in luogo pubblico.
Forse il problema andrebbe affrontato a monte, chiedendosi cosa spinga a mostrarsi mentre si allatta. Succede sempre più spesso nei parchi, nei centri commerciali e in altri luoghi di passaggio di vedere una madre che tira fuori il seno e nutre il pargolo. Così, senza problemi, in pubblico. Se qualcuno osa obiettare, emergono spontanee le argomentazioni più classiche sulla gioia della maternità che si vorrebbe negare, sull’incoerenza di chi vorrebbe vedere nascere più bambini ma non accetta che le madri allattino (come se non fosse possibile adottare soluzioni diverse dal farlo ovunque).
Naturalmente a queste si aggiunge la solita spruzzata di “benaltrismo”, così comune ormai ogni volta che veniamo colti in fallo: immancabile l’obiezione sul fatto che “la volgarità è altrove”, che la televisione è peggio, che ormai i bambini vedono di tutto e una mamma che allatta non è poi peggio delle veline, anzi.
Insomma, si prospetta una situazione ormai classica: contro la semplice richiesta di una maggiore sobrietà parte una crociata che addita, denuncia, lancia allarmi. Inutili, perché la richiesta di non allattare in pubblico non riguarda la sostanza, ma la forma. Non è questione di oscenità, ma di buona educazione. Non è sintomo di intolleranza, ma di buona creanza. E in ogni caso – almeno per quanto ci riguarda – è una richiesta, non un’imposizione: speriamo che i paladini del diritto di espressione per tutti non ci neghino il piacere di rivendicare il buonsenso.
Facebook probabilmente ha usato gli argomenti sbagliati. Ma la neomamma, per parte sua, dovrebbe forse riscoprire l’intimità di un momento intenso e riservato come la maternità.
I veri ingenui
A volte ci si chiede se l’informazione ci somigli, o viceversa.
Su tutti i giornali, oggi, campeggia una notizia che sa di clamoroso: scrive il Corriere che «È arrivato in rete Cuil, ultimo nato nel settore dei motori di ricerca intenzionati a sfidare sua maestà Google».
Si tratta di un sistema che «sarebbe in grado di mappare una porzione di web molto più vasta rispetto a quanto fa Google. Inoltre, a differenza di quest’ultimo, non assegna rilevanza in base al link (caratteristica cruciale di PageRank, il famoso algoritmo su cui si fonda Google), bensì in base al contenuto delle pagine rispetto alla richiesta lanciata dall’internauta. L’aspirante rivale del motore più famoso della rete tiene quindi in considerazione più i concetti alla base delle ricerche di ciascun utente».
Non bastasse questo a impressionare il lettore, il Corriere rincara la dose: «Al momento le pagine indicizzate da Cuil sono oltre 120 miliardi, quindi circa il triplo di quelle dichiarate dal colosso di Brin e Page», ossia Google.
Unico tallone d’Achille, la prova pratica: «Tentando per esempio una ricerca con termini molto popolari, come “Harry Potter”, Google propone circa 113 milioni di risposte, mentre il nuovo motore ne offre più o meno 30 milioni. Inoltre, al momento le ricerche in un lingua diversa dall’inglese sono assai deboli».
In sostanza il Corriere si accorge del fatto che la pratica smentisce gli annunci, e che con i termini in altre lingue va anche peggio, ma lo relega a un mero dettaglio.
Abbiamo provato anche noi, e si potrebbe dire che nessun motore di ricerca è mai sceso così in basso: decine di pagine civetta senza utilità, di quelle che – giustamente – vengono filtrate dai motori di ricerca seri.
È singolare constatare come nella società dell’informazione globale, dove qualsiasi informazione è verificabile in pochi secondi, basti una fola di annuncio per sollevare un polverone ingiustificato. Ancora più sorprendente notare che questo polverone si rivela capace di trascinarsi dietro anche le testate più serie, che a quanto pare sono disposte a credere ciecamente agli annunci: contro ogni evidenza, verifica e sperimentabilità.
E poi gli ingenui saremmo noi cristiani?