Tutto in un cognome
«Perché dovremmo portare solo il cognome paterno?»: è una discussione che dal Sessantotto, con maggiore o minore realismo, ciclicamente riprende quota anche nel nostro paese. Da qualche settimana se ne riparla per la proposta di legge del deputato Giulia Bongiorno, che prevede – qualora approvata – l’assunzione obbligatoria del doppio cognome per tutti i cittadini neonati.
Non dovrebbe trattarsi di una norma retroattiva, per cui saremo graziati dall’imparare una nuova firma alla nostra non più tenera età, e l’incombenza spetterà solo ai nuovi arrivati.
Qualche illustre detrattore paventa che, in base a questa legge, dalla seconda generazione i neonati dovranno fregiarsi di quattro cognomi (i due del padre più i due della madre), ma i sostenitori della proposta assicurano che, per non fare scoppiare l’anagrafe, anche nelle generazioni successive alla prima si potranno adottare sempre e solo due cognomi tra i quattro dei genitori.
Non ci dicono, però, come verranno decisi questi due cognomi (li sceglierà il neonato una volta maggiorenne? Si accorderanno i genitori? Verranno estratti a sorte?), né ci dicono come verrà risolto il problema che si porrà per chi il doppio cognome ce l’ha già: se Matteo Cordero di Montezemolo vorrà sposare Talita Puri Negri, il pargolo si ritroverà a segnarsi con quattro cognomi nonostante il correttivo di cui parla la relatrice, per non rinunciare (è il caso di dirlo) a qualche quarto di nobiltà.
Insomma, vada come vada sarà una norma rivoluzionaria, e sorprende che sia un esponente di AN e un governo di centrodestra a proporre una soluzione così radicale: eravamo convinti che diversi sarebbero stati i problemi affrontati durante questa legislatura.
Ciò che però forse sorprende di più non è la proposta dei legislatori, ma il silenzio dei commentatori. Di fronte alla proposta di legge, anche i più sfegatati difensori della tradizione – di qualunque parte politica o fede religiosa – tacciono. Forse non hanno una risposta plausibile alla domanda di cui sopra, e questo è grave.
È grave, e non per il cognome in sé. È grave perché, a forza di sostenere le tradizioni, si è perso il loro significato, al punto da non saper argomentare ragionevolmente sul motivo per cui sarebbero “buone e giuste”.
È grave perché il silenzio, la ritirata, il ripiegamento sono il risultato di decenni di falsa religiosità, di battaglie di forma che dietro alla prima linea non avevano nulla di concreto.
È grave che, come scrive Magazine, di fronte a questa domanda “Gli uomini, di solito, replicano mimando l’occhio acquoso della triglia”.
È grave che nessuno possa osservare come, sul piano pratico e logistico, il cognome paterno sia un identificativo convenzionale e che toccandolo si rischi una serie di effetti a catena, proprio come quando si sono toccati altri capisaldi della società.
Ma soprattutto è grave che nessuno, tra coloro che si definiscono cristiani, osi obiettare che si tratta di una consuetudine biblica, e quindi di un suggerimento che vale la pena di seguire.
Come sappiamo, l’intero Antico Testamento identifica le tribù per patronimico, e lo fa senza spirito di discriminazione e tutelando le situazioni critiche (per esempio quando questo sistema avrebbe potuto portare all’estinzione di un casato).
Naturalmente non abbiamo usato il termine “suggerimento” a caso. La Bibbia non comporta obblighi, nemmeno per un cristiano coerente: dice semplicemente «fai così, e sarai felice». Ogni cristiano coerente, nel suo cammino di fede, si accorge che le indicazioni bibliche non sono un velato ricatto da parte di un dio capriccioso, ma una promessa concreta, capace di migliorare la nostra vita spirituale, ma anche la nostra quotidianità.
Non tutti sono obbligati a crederci, e nessuna legge dello Stato può obbligare un cittadino a seguire questi principi: un’adesione forzata non sarebbe giusta né efficace. Viviamo in un paese libero, e questo è indubbiamente un vantaggio per tutti: per chi crede e per chi non crede.
Già, dovremmo essere liberi. Ci hanno insegnato che, in una società liberaldemocratica, le leggi dovrebbero essere neutrali e ognuno dovrebbe essere libero di gestirsi da sé, entro i limiti del rispetto per gli altri.
Se così è, però, non si capisce perché il doppio cognome, nella proposta dell’onorevole Bongiorno, non sia facoltativo ma obbligatorio.
Non si capisce perché il tentativo di scardinare il retaggio di «una concezione patriarcale della famiglia e di una tramontata potestà maritale» (in questi termini si è espressa la Consulta) debba obbligare anche chi non considera affatto tramontata questa “potestà maritale”, e – fatto salvo il rispetto dovuto agli altri – dovrebbe essere libero di pensarla così, se lo ritiene opportuno.
Anche perché questa “potestà” sarà pure poco di moda in una società che ama vivere senza punti di riferimento, senza valori e senza certezza delle pene, ma solo un impeto di giacobinismo potrebbe definirla addirittura contraria «ai principi dell’ordinamento» e al «valore costituzionale di uguaglianza tra uomo e donna»: con tutto il rispetto dovuto all’ordinamento giudiziario, ci sentiamo in dovere di rilevare che una Corte obiettiva e in buonafede non dovrebbe ricordare solo gli aspetti deteriori di un sistema, facendo strame di tutto il buono che lo stesso sistema ha portato con sé nel corso dei secoli.
Insomma, il pronunciamento – con tutto il rispetto per la Consulta – pare un’enormità, e paradossalmente non rende onore alle tante donne che, nei sessant’anni segnati dalla nostra Costituzione, si sono affermate grazie ai loro talenti, alle loro capacità, al loro impegno.
Non bisognerebbe dimenticare che leggi e sentenze fotografano la società e la indirizzano: e la condizione attuale della società è dovuta a norme e dispositivi che Parlamento e Consulta hanno approvato e confermato negli ultimi decenni.
Se viviamo in uno stato moderno, se sperimentiamo un’economia basata sulla concorrenza, se la società gode il privilegio dell’uguaglianza tra cittadini, se possiamo esercitare e apprezzare la libertà di stampa è per merito delle Istituzioni. Allo stesso modo è loro responsabilità se oggi mancano il senso di autorità, il concetto di solidarietà reciproca, il rispetto delle leggi, la fiducia nella giustizia, l’ossequio verso le autorità stesse, se c’è diffidenza verso il prossimo, se la morale e l’etica vengono percepiti come ostacoli e non come strumenti di convivenza.
Nel corso dei decenni abbiamo visto demolire il concetto di famiglia, di autorità genitoriale, di diritto-dovere all’educazione dei figli, di responsabilità paterna. Solo ingenuità o malafede possono portare a considerare questi risultati indipendenti da leggi equivoche e sentenze fantasiose di cui abbiamo notizia a cadenza quotidiana. E solo ingenuità o malafede possono far chiudere gli occhi di fronte all’evidente nesso tra queste cause e gli effetti di cui leggiamo, ogni giorno, nelle pagine di cronaca.
Ovviamente, nello sconcertante quadro attuale, non sarà un cognome a cambiare le cose in meglio o in peggio, ma il messaggio che una legge simile farà passare non è indifferente.
Una bandiera non ha il potere di unire un Paese, né la commemorazione del sacrificio di Cristo ha di per sé la forza di compattare i credenti: sono solamente simboli visibili di qualcosa che siamo chiamati a ricordare; sono memoria di un impegno e di una responsabilità che, quotidianamente, siamo chiamati ad assumerci.
Il cognome, per la famiglia, ha lo stesso significato: specie in un contesto sociale dove è rimasto l’unico elemento a ricordare l’unità familiare e la comune identità di genitori e figli.
Non meno importante, è l’ultimo labile argine alla definitiva deresponsabilizzazione del capofamiglia: un capofamiglia che per la legge già non esiste più, ma per Dio sì.
La legge può sancire la solubilità del matrimonio o addirittura il matrimonio a tempo, l’emancipazione dei figli o addirittura la loro autorità sui genitori, la distanza legale tra marito e moglie (curiosamente il figlio dovrà assumere i cognomi di entrambi i genitori, ma da anni la moglie non può, nemmeno volendo, assumere il cognome del marito), l’assenza di un capofamiglia o addirittura lo stravolgimento dei ruoli parentali.
La legge può decidere tutto questo, e anche altro. Per Dio, invece, l’istituzione della famiglia non cambia in base ai tempi, agli usi, alle voglie degli umani.
Certo, spesso anche a noi cristiani farebbe comodo sentirci sollevati da responsabilità familiari che percepiamo come opprimenti o anacronistiche («io capofamiglia? No, noi decidiamo tutti insieme!»), ma – per grazia o per disgrazia – questo non potrà mai essere mai un alibi nel nostro rapporto con Dio. Che, al contrario della società intorno a noi, ci chiede di prenderci le nostre responsabilità con coerenza, a prescindere da quel che succede attorno a noi e senza fare aggio su ragionevolissime scuse che riempiono la bocca di “progresso”, “tempi moderni”, “evoluzione dei costumi”.
Le nostre responsabilità verso Dio rimangono immutate: e ognuno, in base alle proprie, risponderà per il modo in cui le ha esercitate.
Ognuno di noi risponderà per l’uso dei talenti che gli sono stati assegnati. Risponderanno, in misura ancora più significativa, i pastori d’anime, le autorità civili, gli educatori, i missionari, ognuno per il proprio ruolo.
Risponderanno anche i capifamiglia, per come hanno utilizzato la loro autorità e gestito la loro responsabilità.
Se davvero siamo cristiani non possiamo non credere in questo. E non possiamo non tenerlo a mente ogni giorno del nostro cammino con la giusta consapevolezza e il giusto senso di responsabilità.
Pubblicato il 7 settembre, 2009, in Uncategorized con tag AN, battaglie, capifamiglia, capriccioso, casato, coeranza, cognome, commentatori, concreto, condizione, convenzionale, credere, cristiano, critiche, Dio, discriminazione, educatori, efficace, facoltativo, felice, firma, forma, genitori, Giulia Bongiorno, identificativo, leggi, legislatori, missionari, motivo, neutrali, nobiltà, obblighi, pene, politica, Principi, religiosa, religiosità, retaggio, ricatto, riferimenti, risposta, rivoluzione, ruolo, sentenze, significato, silenzio, suggerimento, Tradizione, uomini, valori. Aggiungi il permalink ai segnalibri. 7 commenti.
Altra baggianata partorita da una classe politica inconcludente che invece di pensare a risolvere i problemi dei loro datori di lavoro (i cittadini tutti), inventa sempre qualcosa per complicargli la vita.
Noi che di cognomi in famiglia ne abbiamo già quattro sappiamo cosa comporta.
Una sonora e simpatica pernacchia alla Signora Buongiorno.
Solo una donna poteva avanzare una proposta simile…
Non capisco il senso di rivalsa che hanno a volte le donne, quasi che si sentano realizzate se vincono una qualche sfida contro il genere maschile, per dimostrare che noi, le donne, il sesso debole, siamo come loro, i maschi, visti troppo spesso come “nemici”, come coloro che ci discriminano, ci limitano, ci trattano come inferiori.
Io non la vedo così. Siamo diversi, punto. Possiamo fare molte cose che fanno gli uomini, magari alcune anche meglio, ma siamo diverse. Ed è questa diversità che rende speciali le donne e rende speciali gli uomini.
Che poi, a voler precisare: ma cosa ci guadagnerebbero le donne se i loro figli avessero il loro cognome? Bè, magari i miei ne avrebbero uno più bello, ehehehe…
Però se penso a quelle donne che davvero patiscono a causa di violenze e discriminazioni, mi viene da dire al deputato Giulia Bongiorno (spero non si offenderà se non la chiamo deputata!): invece di occuparsi di queste inezie, non ha niente di più importante a cui pensare?
Vabbè, vado a controllare se mio marito ha fatto tutto; oggi doveva tagliare la legna, portare via la spazzatura, cucinare e stirare. E se non ha fatto tutto, non lo salverà il suo cognome! 😀
Signor JUGOVAC il suo post contiene alcune inesattezze che manifestano la gran fretta di scrivere su argomenti su cui non si è documentato, comportamento da bloggarolo più che da giornalista. La informo che se si prendesse la briga di leggere la proposta di legge della deputata Buongiorno saprebbe che la legge norma chiaramente come si sceglierà quale dei due cognomi trasmettere.
La informo anche che il cognome paterno in via esclusiva obbligatorio per tutti è stato dichiarato contrario ai principi della carta di Lisbona da una recente sentenza della Corte di Cassazione. Cambiare si deve, dunque.
Per il resto spero voglia accettare che chi ha una fede differente dalla sua (o non ne ha affatto) possa godere di una legislazione che non discrimini le sue convinzioni a vantaggio delle sue.